Cosa sappiamo di Palermo nei tre secoli in cui fu romana? Ben poco. Eppure Diodoro Siculo ci dice che intorno al 254 a.C. la città contava più di settantamila abitanti; Pompei al tempo dell’eruzione del Vesuvio, 79 d.C., ne aveva circa ventimila.
La tremenda eruzione del Vesuvio ci ha conservato, quasi intatta, una città romana: una fortuna straordinaria per la storia e l’archeologia. Tutte le città dell’immenso impero romano invece si sono sviluppate nei secoli cancellando il più delle volte intere aree urbane ed edifici.
Questo è accaduto anche al capoluogo dell’Isola. Poche infatti le testimonianze di una città ricca e prosperosa al centro del Mediterraneo, con un porto di certo movimentato. I resti delle importanti Domus romane in piazza della Vittoria e poco altro non ci consentono di immaginarne la struttura urbana né tanto meno i suoi edifici pubblici. L’orografia della città fenicia tramandataci da studi e cartografie si è cristallizzata nell’immaginario collettivo attraverso i corsi d’acqua del Kemonia e del Papireto, delimitanti la famosa penisola (il piede fenicio) e dando vita al suo porto naturale.
Il recente studio di Giuseppe Ferrarella («Persistenza delle forme nell’architettura della città. Congetture sull’anfiteatro di Palermo», ed. Caracol) apre uno spiraglio in questo buio storico: niente di più che un’ipotesi, tuttavia stimolante a farci capire quanto si celi ancora sotto la superficie epidermica della nostra città antica in cui nel tempo il susseguirsi di pesanti interventi urbanistici, in particolare nei secoli XVI e XVII, ha cancellato tracce e memorie ormai perdute per sempre.
Ecco che sembra prendere vita l’idea di un anfiteatro che i romani posero nei pressi del porto antico: una struttura ellittica rivolta con l’asse maggiore al mare. Le indagini accuratissime dell’autore scavano metaforicamente cercando di ricostruire l’assetto del territorio prima delle tante manipolazioni che ne hanno stravolto l’originaria complessa struttura orografica: infatti ciò che oggi ci appare pressoché pianeggiante non lo era affatto in origine.
In tale studio indagini inedite configurano una storia affascinante e verosimile; anche riesaminando la notissima pianta geometrica di Palermo del 1777 del Marchese di Villabianca. L’autore parla di congetture, tuttavia egli cattura il lettore restituendoci una Palermo romana difficile da immaginare. Le tracce dell’anfiteatro riaffiorano esaminando il tessuto edilizio nell’area della Loggia, così come avviene per esempio a Firenze, dove si trovava un analogo edificio di dimensioni simili e anch’esso inghiottito dall’espansione medievale della città.
Il riaffiorare dall’oblio di quello palermitano ci appare come un’ovvia conferma in considerazione dell’importanza della città a quell’epoca. Con l’asse maggiore dell’ellisse di circa 120 metri, sarebbe inferiore a quello dell’arena di Verona e a quello di Pompei, ma abbastanza vicino a quello di Catania, di cui affiorano tracce in piazza Stesicoro. Ricordiamo che tra resti e notizie si contano solo in Italia più di 230 anfiteatri romani, molti in piccoli centri.
Lo studio analizza le quote dei luoghi modificate nei secoli, i percorsi delle acque e la persistenza di forme che fanno ritenere sia esistita nel capoluogo siciliano un’area edificabile ai piedi della nota penisola, dove probabilmente fu scelto il sito dell’anfiteatro, struttura indispensabile nelle città grandi e piccole dell’impero, realizzato con l’avanzata tecnologia costruttiva dei romani.
Le persistenze leggibili ancor oggi nelle planimetrie e foto aeree, osservando vie e allineamenti murari, rivelano la curvatura dell’anfiteatro sul lato rivolto verso il mare (immaginiamolo con il consueto prospetto ad arcate), mentre l’assenza di una curvatura nelle planimetrie degli attuali edifici nella parte a monte, fa supporre che, avvicinandoci all’antica penisola, il terreno presentasse un declivio naturale atto quindi a ricavare le gradinate della cavea scavando direttamente la roccia; per questa ragione qui non esistono tracce di setti murari costruiti.
Non è questa la sede per specificare i dettagliati passaggi con cui Ferrarella sviluppa la sua intrigante ipotesi sul teatro e altri aspetti sulla morfologia della città antica. Questo studio, per metodo d’indagine e risultati, merita la massima attenzione, offrendoci l’opportunità di riconsiderare alcuni dati sull’assetto urbano di una Palermo scomparsa, che diamo per scontati da troppo tempo e che invece ora ci appaiono suscettibili di necessarie revisioni e ulteriori indagini.
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