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La luce e il buio tra foto e cinema: Pintacuda, 50 anni di immagini

BAGHERIA. Cinquant’anni di fotografie e trenta da proiezionista.

Una vita passata tra la luce (delle strade di Bagheria) e il buio della cabina (dove lavorava come operatore cinematografico).

Due passioni, la fotografia e il cinema, che l’hanno fatto vivere dentro una camera oscura o fuori, alla luminosa solarità della sua Bagheria.

Tra coppole e scialline, vecchi e bambini, strade e case, gli scatti «neorelisti» di Mimmo Pintacuda hanno fatto un capitolo della storia della fotografia italiana del ‘900.

A villa Cattolica, al piano terra del museo Guttuso, due sale interamente a lui dedicate, testimoniano la cifra artistica di un uomo che non è stato soltanto l’amico cui Giuseppe Tornatore s’è ispirato per il personaggio di Alfredo in «Nuovo cinema Paradiso».

Quello di Pintacuda è l’occhio attento di un baarioto sempre all’inseguimento dell’istante inafferrabile; è lo sguardo di un uomo che, anche quando racconta lo stesso territorio, scopre sempre qualcosa di nuovo.

Le sue fotografie sono veri e propri quadri dipinti con gli occhi che ci fanno (ri)trovare il senso di una comunità attraverso uno struggente «come eravamo». Questo «creatore di immagini a metà strada tra i fratelli Lumière e Georges Méliès» (come l’ha definito Tornatore), nato a Bagheria nel 1927, dopo i duri anni del secondo dopoguerra che lo vedono lavorare ad Asti per un anno, inizia nel 1952 la sua attività di proiezionista al cinema Vittoria di Bagheria e, nello stesso anno, insieme con il fratello Nicola, rileva lo studio fotografico La Tona in piazza Cirrincione.

Dalla prima Rolleicord all’amata Pentacon 6x6 tutto nella vita di Mimmo diventa fotografia umana dove le persone sono protagoniste dello spazio che lui inquadra.

Appassionato di Henri Cartier-Bresson (il teorico del «momento decisivo») e de «Il Gattopardo», il suo film preferito, Pintacuda riassume le teorie viscontiane applicando i metodi bressoniani perché tutte le sue fotografie raccontano storie infinite, circoscritte in un clic, risultato del momento giusto in cui bisogna scattare.

Dei suoi concittadini studiava ogni gesto e «mentre li distraeva dai drammi quotidiani mostrando loro un western, storie poliziesche ed avventure esotiche, lui, senza farsi accorgere gli portava via l’esistenza.

La catturava con la stessa agilità del cacciatore e la trasformava in fotografia» scrive Giuseppe Tornatore nel catalogo «Mimmo Pintacuda, 50 anni di fotografie», nel ricordare il suo primo maestro di immagini.

Ma sono in tanti ad aver attinto da lui: da Renato Guttuso (il cui dipinto «Pittore di carretti» del 1966, anche nelle pieghe, ricalca la foto che, nel 1962, Pintacuda scattò a Onofrio Ducato mentre dipingeva la fiancata di un carretto) alla foto dell’estratto di pomodoro del 1976, fonte d’ispirazione per l’omonima foto realizzata un anno dopo dal compaesano Ferdinando Scianna.

Oltre all’evoluzione sociale nostrana, Pintacuda ha documentato la dura realtà degli emigranti di Sicilia negli States con un ciclo di fotografie frutto della sua permanenza a Chicago lunga «cento giorni e due ore».

E poi ancora i cicli dedicati a «strade, cortili e mare», «visti da dietro» e «quando i bambini non ci guardano» per arrivare alla poesia delle nature morte con ‘tracce’ e «la sedia racconta» due cicli a metà tra astrattismo e fotografia dove i muri stratificati delle case di Bagheria e le sedie davanti alle porte parlano della vita degli uomini senza mostrarli.

L’immenso patrimonio fotografico, oltre tredicimila immagini tra negativi e positivi, è stato donato al Museo fotografico dei fratelli Alinari di Firenze (alinari. archives. it/it/search) dallo stesso Mimmo Pintacuda: da grande fotografo ha costruito i nostri ricordi, fotografandoli.

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