PALERMO. Con le sue cinque cupole sarebbe stata bene nella Baghdad o nella Damasco prima delle bombe. Invece siamo all’Albergheria, antico quartiere delle locande, delle foresterie, un labirinto di viuzze. San Giovanni degli Eremiti sta a monte, prossimo al fiume Kemonia, il cui letto era costituito dall’attuale via Castro, non lontano dal palazzo di re Ruggero. I secoli hanno plasmato il suo antico volto, frutto di singolari apporti e mirabili fusioni. L’edificio sorge su fondazioni di preesistenti, costruzioni di epoca diversa: un tempio pagano dedicato a Mercurio, il monastero gregoriano di sant’Ermete datato VI secolo, una moschea araba del X secolo si alternano prima della riedificazione normanna del convento nel 1136: oggi è come se la chiesa si scambiasse la pelle, cioè parte della struttura muraria, con la moschea. Accanto, un elegante piccolo chiostro porticato a colonne e archi acuti ravvicinati sembra anticipare quello di Monreale. Un luogo privilegiato, un tempo immerso nei giardini del palazzo reale: affidato da Ruggero all’influente ordine dei Benedettini — all’abate venivano delegati incarichi prestigiosi presso la corte normanna — il monastero comprendeva un dormitorio, un refettorio, un cimitero, la chiesa di San Giovanni e il chiostro.
Ora, quel che resta è affidato alla soprintendenza di Palermo, organismo che all’assessorato ai Beni culturali non ritengono di dover dotare di denaro. Quindi qui — altra tappa di quel percorso arabo-normanno che una commissione ha ritenuto di iscrivere alla lista del patrimonio dell’umanità Unesco, senza evidentemente dar troppo peso, come al Castello della Zisa, alle mancanze che neppure tutta la bellezza del mondo può nascondere — il rischio di ripetersi è alto, già nella prima considerazione: la soprintendenza non riceve soldi dal dipartimento Beni culturali e, senza denaro — è il caso di dire — non si canta messa. Né, in generale, si può pensare di affidare un patrimonio enorme alla buona volontà di pochi. Di navigare a vista.
Nessun «genere di conforto» per i visitatori: niente bookshop, niente brochure esplicativa, appena un triste foglietto (in italiano) all’ingresso, zero audio/videoguide, luce fiochissima. Due i pannelli: uno in italiano racconta la storia del sito, un altro — crepi l’avarizia — è in quattro lingue, oltre all’italiano, inglese, francese, tedesco e spagnolo, e spiega cosa succedeva nella Sala del Capitolato, non si sa se vera e propria moschea o sala di preghiera, dove si trova l’affresco medievale sopravvissuto, la «Madonna in trono» tra san Giovanni benedicente e san Giacomo o Ermete, perché qui secondo alcuni autori, sorgeva il monastero di sant’Ermete, fondato nel 581 da San Gregorio Magno. Appena fuori una cisterna la cui acqua veniva utilizzata per le abluzioni prima di entrare nel luogo sacro.
La chiesa, orientata verso est, è un solido geometrico chiuso nel quale si innestano i volumi rigonfi delle cupolette rosse. Rosse? Sull’argomento una storia va raccontata. La mano dell’architetto Giuseppe Patricolo è evidente un po’ ovunque a Palermo: San Giovanni non sfuggì alla regola e l’intervento di restauro ottocentesco rimase famoso soprattutto per l’affaire delle cinque cupole rosse. Anzi, grigie. L’architetto era un seguace dei criteri teorico-metodologici del francese Eugène Viollet-le-Duc, cioè «l’adozione costante nel restyling dei monumenti di tutta l’antiscientificità del ripristino», spiegò una volta Rosario La Duca. Nel restauro delle cupole fu riprodotto il colore rosso cupo di un avanzo di intonaco rinvenuto sul posto: in base a questa soggettiva interpretazione della tinta originaria, il Patricolo intervenne, oltre che a San Giovanni, anche sugli altri monumenti normanni di Palermo. Per analogia. E così, la bizzarria di un architetto produsse la prodigiosa trasformazione della situazione cromatica, un cambiamento notevole rispetto a una litografia a colori di San Giovanni inserita nell’opera di Henry Gally knight, «Saracenic and Norman remains to illustrate the Normans in Sicily», edita nel 1840 a Londra, dalle calotte prive di intonaco. Ma tant’è, l’effetto è tuttora notevole. L’incisiva campagna di restauro del Patricolo eliminò anche alcune strutture monastiche ritenute non presenti nell’aspetto originario che si intendeva ripristinare.
Oggi il loro posto è stato occupato da un giardino di impianto romantico, che sfrutta la configurazione del suolo su diversi livelli tramite aiuole e vialetti interni, tra pompelmi, cedri, bergamotto e gelsomino. Ed è proprio nel giardino, al confine con la chiesa di San Giuseppe in Capasso, l’unico punto da dove è possibile scorgere insieme le cinque cupole. In realtà, esiste una passerella realizzata sopra le antiche mura, dove si accede da una scala dopo aver attraversato il chiostro: ma non è percorribile per motivi di sicurezza. O meglio, il percorso, da cui si possono vedere la città e le cupole dall’alto, è riservato a pochi temerari, o a studiosi autorizzati. Gli scalini sono stretti, mentre il parapetto più basso del dovuto è stato necessario per rispettare la bellezza del monumento, ma non garantisce la sicurezza, dicono alla soprintendenza. Bellezza e sicurezza l’una contro l’altra armate... Nel sito si alternano quattordici dipendenti suddivisi per turni, il biglietto intero costa sei euro, 24 se abbinato al Castello della Zisa, al Chiostro di Monreale, la Galleria regionale di Palazzo Abatellis, e il Museo d’Aumale a Terrasini.
Attorno al chiostro, ma non solo, pietre mancanti dall’acciottolato, creano un percorso irregolare. Ma, in questo caso, non si può dire che la Soprintendenza non sia stata previdente: un «totem» in bella vista avverte che la pavimentazione non è uniforme. Di porre rimedio, però, non se ne parla. E non mancano i lavori avviati, conclusi ma mai resi fruibili: le tre stanze, utilizzate come alloggi dall’abate e dai frati sono state recuperate e dovrebbero diventare la sede di un bookshop. Per il momento sono sigillate, ma si sta curando un allestimento, nell’attesa che la Regione si pronunci in fatto di servizi aggiuntivi e decida una reale destinazione. Conoscete le calende greche?
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