Una gravidanza perfetta. Che nelle ultime settimane si è trasformata in un incubo, poi superato dall’intuizione dei medici del Civico di Palermo. Gemma Agostino, 42 anni, originaria di Termini Imerese, era quasi arrivata al traguardo dei 9 mesi: Emmanuel e Miriam avrebbero visto la luce da li a poco, quando la donna ha cominciato ad avvertire degli strani sintomi.
«L’attesa dei miei due gemellini era andata alla grande - racconta Gemma - con i complimenti del mio ginecologo. Portare avanti questo tipo di gestazione a 42 anni non è facile. Poi però, ho notato qualcosa che non andava. Ho cominciato ad accusare un forte gonfiore alle gambe e ai piedi, la pressione saliva e scendeva freneticamente e avevo problemi nella diuresi. Non facevo quasi più la pipì». Gemma si consulta subito con il suo ginecologo, che all’istante capisce che qualcosa non sta andando per il verso giusto. «Mi ha detto di correre subito in ospedale, così io e mio marito ci siamo recati nell’unità di Ostetricia e ginecologia dell’ospedale Civico per alcuni accertamenti». È il 12 dicembre. Gli esami fanno emergere un quadro clinico grave, con una pressione arteriosa molto alta. «Non mi facevano andare via - racconta Gemma - mi trattenevano dicendomi che dovevano eseguire ancora degli accertamenti».
Pochi giorni dopo, il 20 dicembre, la decisione. «Hanno eseguito un parto cesareo d’urgenza». I gemellini, nati prima delle quaranta settimane, sono in buone condizioni di salute e come avviene in questi casi vengono portati in incubatrice. Gemma, però, continua a stare male, i valori ematici in forte peggioramento e la funzione renale compromessa. Dal reparto di ginecologia diretto dal dottor Antonio Maiorana, viene contattata la Nefrologia: «Il quadro clinico della paziente era precipitato - spiega Maiorana - il post operatorio è stato molto complesso e difficile e avevamo capito che non si trattava di gestosi (anche questa caratterizzata da gonfiore causato da detenzione idrica e ipertensione)».
Scatta così il protocollo Pdta (percorso diagnostico terapeutico assistenziale), che coinvolge più reparti e più ospedali: «Avevamo il forte sospetto che si trattasse di una patologia molto rara, che colpisce quasi due soggetti per milione di abitanti - spiega Angelo Ferrantelli, primario di Nefrologia all’ospedale Civico -. Ho attivato subito il protocollo, reso possibile anche grazie alla lungimiranza della direzione sanitaria». Grazie al Pdta è stato possibile inviare gli esami al laboratorio della struttura del Policlinico. In due ore la diagnosi: sindrome uremico emolitica atipica. Chi è affetto da questa patologia incorre nella formazione di trombi che si incastrano nei vasi renali, danneggiando il sistema di filtraggio e impedendo la normale funzionalità dell’organo. Inoltre, i globuli rossi si rompono, in piccoli pezzi mentre passano attraverso i vasi sanguigni ristretti. Questa patologia può colpire tutti gli organi del corpo e se non diagnosticata in tempo può portare alla morte.
«Inizialmente ho fatto tantissime trasfusioni - racconta ancora Gemma - mio marito ha contato almeno 17 sacche di sangue. Poi, quando hanno avuto contezza della reale patologia, hanno applicato una cura sperimentale. Avevo il 5% di possibilità di vita, ma sono qui».
All’esito degli esami, il professore Ferrantelli avverte subito la farmacia dell’ospedale: «In questi casi esiste soltanto un farmaco - spiega il primario -, l’Eculizumab. La farmacia è riuscita a reperire il farmaco e abbiamo trasferito la paziente, nel frattempo in Terapia intensiva nel reparto del dottor Vincenzo Mazzarese, per la dialisi e la terapia farmacologica, In dieci giorni, la signora è uscita dal pericolo di vita. È stata la vittoria del gruppo - prosegue - se non fosse stato per il protocollo (il Civico è uno dei pochi in Italia ad avere la certificazione europea) e la preparazione dei miei colleghi non ce l’avremmo mai fatta».
Per il momento Gemma continua ad essere monitorata ogni due settimane: «Dobbiamo capire se è legato ad un’anomalia genetica - conclude Ferrantelli -, in quel caso la signora dovrebbe continuare al terapia anche a vita, ma la qualità di quest’ultima rimane comunque alta. Altrimenti, nel giro di 3-6 mesi, potrebbe sganciarsi dalla terapia».
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