PALERMO. Diventano definitive quattordici delle condanne inflitte con il rito abbreviato nell’ambito del processo nato da «Alexander», l’operazione contro il clan di Porta Nuova del 3 luglio 2013.
Per altri nove imputati, invece – compreso il boss Alessandro D’Ambrogio al quale era ispirato il nome del blitz – come ha stabilito la Cassazione, bisognerà celebrare un nuovo processo d’appello. Non è in discussione la colpevolezza, piuttosto si tratterà di vagliare singoli capi d’imputazione oppure semplicemente l’entità della pena.
La Suprema Corte ha prima di tutto rivisto al ribasso e poi reso definitiva la sentenza emessa il 31 ottobre del 2016 dalla terza sezione della Corte d’Appello a carico di Giuseppe Civiletti (passa da dieci anni di reclusione a otto), di Giuseppe Di Maio (da otto anni a sei), di Giacomo Pampillonia (anche lui da otto anni a sei) e di Antonino Serenella (difeso dall’avvocato Antonio Turrisi, passa da tredici anni e quattro mesi a dieci anni e otto mesi; in primo grado ne aveva avuti quindici).
I giudici hanno poi rigettato o ritenuto inammissibili i ricorsi presentati da altri dieci imputati, rendendo dunque definitive le loro condanne. Si tratta di Antonino Ciresi (undici anni e dieci mesi), Vincenzo Ferro (dodici anni), Ahmed Bachtobji (quattro anni e otto mesi), Gaspare Dardo (sette anni), Raffaele Esposito (due anni), Andrea Bono (otto anni), Salvatore Ignoffo (un anno), Attanasio La Barbera (otto anni e due mesi), Gaetano Rizzo (tre anni), Umberto Sisia (dieci anni).
Infine è stato annullato con rinvio ad una nuova sezione della Corte d’Appello il verdetto emesso per D’Ambrogio (già condannato a diciannove anni e otto mesi), Salvatore Asaro (quattro anni e quattro mesi), Marco Chiappara (dieci anni), Francesco Paolo Nuccio (quattro anni e due mesi), Biagio Serenella (dodici anni e due mesi), Daniele Favata (sette anni e otto mesi), Francesco Scimone (otto anni e quattro mesi) e Pietro Tagliavia (dieci anni).
Alessandro D’Ambrogio – che nel frattempo, da detenuto al 41 bis, si è laureato brillantemente in Giurisprudenza – avrebbe gestito gli affari del clan dalla sua agenzia di pompe funebri, che si trova in via Majali, nel cuore di Ballarò. Qui, com’era emerso dalle intercettazioni, sarebbe intervenuto per dirimere le questioni più svariate, trovando persino una casa popolare a chi ne avrebbe avuto bisogno.
Secondo i sostituti procuratori Francesca Mazzocco e Caterina Malagoli, che avevano coordinato l’inchiesta, D’Ambrogio avrebbe capito prima di altri che cercare di mandare avanti Cosa Nostra solo con le (sempre più scarse) entrate legate all’imposizione del pizzo sarebbe stata una strada perdente. Per questo, per gli investigatori, il boss avrebbe puntato sulla droga, un business ben più fiorente e remunerativo.
Quando venne arrestato a luglio di cinque anni fa, D’Ambrogio non era certo uno sconosciuto per gli inquirenti: già condannato a otto anni per associazione mafiosa era tornato libero ad agosto del 2006, salvo rientrare nuovamente in carcere a gennaio del 2008, nell’ambito dell’inchiesta «Addiopizzo»; uscito un’altra volta nel marzo del 2011, era ritornato in cella proprio con il blitz ispirato al suo nome.
Un personaggio di peso, secondo la Procura, e anche particolarmente carismatico sul suo territorio. Avrebbe partecipato a diversi summit con altri capi mafiosi come Giulio Caporrimo, Cesare Lupo, Antonino Messicati Vitale, Fabio Chiovaro e Gaetano Maranzano. Era presente, secondo le indagini, anche ad un’importante riunione tra boss, quella che si tenne a Villa Pensabene il 14 giugno del 2011 e della quale, però, non fu possibile intercettare i contenuti.
Agli imputati, oltre alla mafia, in questo processo vengono contestati a vario titolo anche i reati di estorsione aggravata dall’aver favorito Cosa nostra, traffico di droga e favoreggiamento. In primo grado il gup Roberto Riggio, il 18 marzo del 2015, aveva inflitto complessivamente circa duecento anni di carcere che, nella sentenza di appello, si erano ridotti di appena vent’anni.
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