È nella solitudine che implode tutto: nel buio di una stanza o in mezzo a tanta gente, la solitudine è un mostro perverso che, ad un certo punto, fa esplodere il cervello. Ne è certo Paolo Crepet che ha letto le notizie del femminicidio di Villabate: Giovanna uccisa a colpi di bisturi dall’ex compagno Salvatore, che poi si uccide. Salvatore aveva scritto sui social, poco prima, un post in cui annunciava l’omicidio e chiedeva scusa alla figlia della sua compagna, una ragazzina di 16 anni. Gli amici hanno visto il post e avvertito i carabinieri ma sono arrivati tardi.
«Un aiuto farlocco, un aiuto senza chiedere aiuto – è lapidario Crepet -. È del tutto evidente che se io scrivo un post del genere e 30 secondi dopo uccido una persona, non ho chiesto sostegno ma voglio soltanto attirare un’attenzione mediatica, di cui non beneficerò perché non ne più avrò il tempo. Ma è il mondo social in cui viviamo a permettere tutto questo. Esibizione totale, e poi mi dicono che non esiste più il narcisismo, che invece è ovunque e ha a che fare con noi».
Ma c'è chi pensa che fosse malato o depresso.
«Se continuiamo a pensare che una patologia dia una sorta di immunità, di fatto la accettiamo. Invece, siamo in un mondo perverso dove crei una chat per andare in un posto a picchiare la gente e c’è uno che intanto riprende; o sfotti un ragazzino appesantito o posti la foto svestita di un’adolescente. I social sono l’anima della nostra comunità, ci piace vivere così? A me no. Viviamo in un mondo totalmente virtuale che nasconde a malapena la nostra abissale solitudine».
A Racalmuto un altro uomo ha ucciso i genitori e ha detto di «vedere i fantasmi».
«Erano soli. Non avevano amici o conoscenti; se li avessero avuti, avrebbero parlato prima, si sarebbero sfogati, avrebbero urlato e pianto, ma non ucciso».
Lei non crede che si sarebbero potuti evitare questi omicidi con una maggiore attenzione ai social?
«Ma come si fa? In generale come si fa a pensare che sia una richiesta di aiuto? Confondiamo le esibizioni con la tragicità del vero. Un tempo remoto, ma non remotissimo, le cose erano diverse: facevi una telefonata, dall’altra parte c’era una persona fisica, era un appiglio. Magari se avessero telefonato a un amico, questo gli avrebbe chiesto di ragionare. Sembrano scuse ottocentesche, ma la verità è che ci stiamo abituando ad un mondo orrendo come questo, che cannibalizza le nostre relazioni».
Indifferenza e incapacità di agire?
«Ma anche improbabilità delle nostre emozioni, l’empatia non c’è più a favore del business. Finché non lo urliamo, queste cose continueranno a far parte della nostra quotidianità, ci stiamo abituando. Cosa fare non lo so: ma sono certo che, come sempre, si organizzerà un funerale in cui ci saranno tante belle parole e si ricomincia. Fino alla prossima. Io allora dico, scaviamo una fossa comune e buttiamoci dentro: si salverà chi soltanto chi resterà sull’orlo».
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