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«Hai avuto giustizia grazie a Giuseppe e adesso buon compleanno, papà»

Il ricordo del figlio Giulio, che prese il suo posto al Giornale di Sicilia: «Aveva l’energia e la forza di un ragazzino»

Dici: «Uomini del Colorado, vi saluto e me ne vado» e ti scappa un sorriso. Scatta subito il collegamento: Mario Francese. Era la sua battuta serale al termine della giornata di lavoro, il suo saluto ai colleghi. Una battuta senza senso, per il gusto della rima. Una sorta di rito diventato un ritornello, oggi conosciuto da tutti. Mi piace pensare che quella sera del 26 gennaio di 46 anni fa, lasciando il giornale, quelle siano state le sue ultime parole, un congedo dalla vita col sorriso sulle labbra. Mio padre era fatto così, gli piaceva scherzare, fare sorridere. Non aveva smesso neppure quando era stato ricoverato per l’infarto. Si alzava dal suo letto, si faceva un giro dei reparti, andava a tirare su di morale gli altri pazienti, fraternizzava con loro, gli raccontava dei suoi animali ad Aspra, del suo lavoro, di storie di mafia cui sapeva dare un’enfasi colorita.

Sapeva creare legami sinceri con la gente, lo conoscevi e non lo dimenticavi più. Quando si andava nella casa di campagna di Campofiorito, dopo Corleone, il tragitto durava il doppio del normale. Ogni volta fermate d’obbligo al panificio, al bar, dal benzinaio, dal venditore di vino, dal pastore per la ricotta. Lo aspettavano, restavano volentieri a chiacchierare con lui come vecchi amici, gli offrivano il caffè. E così avveniva dovunque andasse, nei vecchi quartieri della Kalsa e della Vucciria, che amava, o al palazzo di giustizia che frequentava ogni giorno per il suo lavoro di cronista giudiziario. Lo conoscevano tutti, «u dutturi».

Quella sera di 46 anni fa, in Viale Campania, era ancora lui al centro dell’attenzione. A terra, disteso inerme in una pozza di sangue, coperto pietosamente da un lenzuolo. Niente battute, questa volta, niente sorrisi. La folla muta intorno a lui, incredula, in lacrime per quell’uomo perbene così noto e così ben voluto. L’inizio di un lungo incubo per Palermo, ancora ignara del terribile destino che attende altre vittime eccellenti. Il killer, Leoluca Bagarella, il più spietato degli uomini di Totò Riina, lo aveva sorpreso alle spalle senza dargli scampo. Cinque colpi, un attimo ed è cambiato tutto. Mario Francese, esempio di buon giornalismo, voce forte contro la mafia, non c’era più. Un attimo per cancellare una vita e farne deragliare altre, quelle di una famiglia inghiottita dalla disperazione, con 4 figli orfani all’improvviso, una moglie sprofondata in una prigione di dolore, destini cambiati per sempre. Papà non avrebbe più cantato al mattino o in auto i classici della musica napoletana, non avrebbe più accudito i suoi amati cani e gli uccellini, non avrebbe più curato l’orto, non avrebbe più scritto di mafia, non avrebbe più dato una mano alla povera gente che in lui trovava ascolto e sostegno.

Mancavano 11 giorni al suo compleanno, non ci hanno dato il tempo di festeggiare i suoi 54 anni. Ma ora alzeremo il sipario al Teatro Politeama per celebrare il suo centenario. «Credevano di seppellirti ma quello che hanno fatto è seppellire un seme»: le parole del poeta Ernesto Cardenal valgono anche per lui, anche se quel seme ci ha messo non poco a sbocciare, quasi un ventennio. Poi da quel seme sono nati altri semi e la memoria di quel gran giornalista e di quella bella persona che è stata ha messo radici sempre più profonde.

Il nome di Mario Francese riecheggia oggi nei convegni, nelle aule scolastiche, è familiare alle nuove generazioni di giornalisti. Ma c’è voluto tempo, decisamente troppo. Per molti è stato una scoperta. La forza delle sue inchieste ricche di nomi e cognomi, le sue analisi sulla scalata dei corleonesi e sui loro affari creano ancora stupore. Scrisse della commissione della mafia molti anni prima delle rivelazioni di Buscetta, accese i fari sull’ascesa di Totò Riina, del nuovo capo dei capi raccontò gli affari, il matrimonio con la maestrina Ninetta Bagarella: quel giornalista così gentile ma anche determinato fu l’unico a cui la donna concesse la sola intervista mai rilasciata. Uno dei suoi tanti scoop. Come quello dell’intervista alla madre di Peppino Impastato, pochi giorni dopo la morte del figlio, in cui si parlerà apertamente di omicidio. Ma il suo cavallo di battaglia resta per tutti l’inchiesta sulla diga Garcia, la cui realizzazione a suon di miliardi fa crescere gli appetiti della mafia corleonese e la proietta nel mondo degli appalti: è l’alba del nuovo impasto mafia-politica-economia.

Sapeva arrivare dove gli altri non arrivavano, instancabile, battendo palmo a palmo ogni giorno il palazzo di giustizia, macinando chilometri con l’energia e l’entusiasmo di un ragazzino, parlando con centinaia di persone, sempre disponibile all’ascolto. L’ho sperimentato nell’ultimo mese della sua vita quando anch’io divenni cronista di giudiziaria, ma per un altro giornale: ogni giorno fianco a fianco, molto tempo trascorso insieme, stessi percorsi, non più soltanto padre e figlio, ma colleghi, maestro e allievo, perfino amici che si scambiano confidenze, come non era mai avvenuto prima. Sul suo taccuino fioccavano gli appunti, mi presentava a giudici, avvocati, cancellieri. Voleva che imparassi in fretta, come se avesse poco tempo ancora. Ecco cosa dovrai fare se mi succedesse qualcosa, mi disse un giorno. «Ma va’, camperai 100 anni», gli risposi. E invece... cinque colpi, un attimo: tutto finito.

Mi sono ritrovato nel suo giornale, assunto al suo posto, ho rischiato di perdermi, chiuso nella mia bolla di smarrimento e solitudine, ferito dal silenzio della città calato troppo presto sulla morte di mio padre, diventato in poco tempo un fascicolo polveroso pronto per l’archiviazione. Ci sono voluti 20 anni per arrivare alla più logica delle conclusioni: è stata la mafia. Il segretario regionale del Pd Pio La Torre, anche lui assassinato nell’82, aveva addirittura alzato il tiro: «Partendo dal delitto Francese c’è un’unica trama che va oltre Cosa nostra a unire tutti quei delitti eccellenti».

Mario Francese morto dimenticato. È stata invece questa per molto tempo la dura realtà. Incomprensibile. È stato il più piccolo della famiglia, Giuseppe, a darci la spinta per non subire più in silenzio, per fare sentire la nostra voce. È stato lui a cominciare a mettere insieme i pezzi e i ricordi di una vita infranta, a raccogliere e digitalizzare articoli e foto di papà, per conoscere e far conoscere meglio quello che non avevamo capito del professionista e dell’uomo, dando tangibile testimonianza del suo impegno.

Feroce contro la mafia, attento e sensibile verso i «poveri cristi». Come Maddalena Gambino, vedova e madre di due vittime di mafia, che puntò il dito contro gli assassini del figlio e a cui mio padre trovò un avvocato per costituirsi parte civile, dato che nessuno voleva assisterla. O come Gianfranco Garofalo, marittimo padre di 10 figli, finito in carcere per un paio di calzini rubati che non gli furono trovati addosso e che rischiava molti anni di carcere a causa di un piccolo precedente risalente ai tempi della guerra. Fu la sua una battaglia giornalistica appassionata contro una legge ingiusta e che determinò solidarietà e sostegno concreto nei confronti dell’imputato e della sua famiglia. E lo stesso fece per fare uscire un detenuto dimenticato per 16 anni nel manicomio giudiziario di Barcellona, in eterna attesa di giudizio per gravi disfunzioni della giustizia.

Oggi, 46 anni dopo, con i capelli bianchi, penso al percorso fatto, alle risposte da dare alla mia nipotina che mi chiede del bisnonno, a quella sentenza che ha restituito dopo 22 anni dignità umana e professionale a mio padre, al gran lavoro di ricerca e approfondimento di mio fratello Giuseppe, che si è stremato per ottenere verità e giustizia per nostro padre e che con la vittoria in tasca ha deciso di andarsene per riabbracciarlo lassù. Scrive Mario Calabresi, altro giornalista cui hanno ucciso il padre: «Ci sono lutti e mancanze che forse non si elaborano mai, ma ricordare e provare a sorridere dei ricordi è quello che possiamo cercare di fare». Uomini del Colorado, vi saluto e me ne vado. Buon compleanno papà.

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