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Stato-mafia, tutti assolti dopo 10 anni

Il processo era iniziato nel 2013. La Cassazione nel 2023 scagiona gli imputati e critica «l’approccio storiografico» al caso

Dieci anni: è durato tanto - tra primo grado, appello e Cassazione - il processo per accertare l’esistenza o meno di una trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. La prima udienza nel processo di primo grado si tenne il 27 maggio 2013 a Palermo in Corte d’Assise, la sentenza definitiva della Corte di Cassazione è arrivata il 27 aprile 2023. E viene demolito l’impianto accusatorio. Annullata la sentenza di appello senza rinvio, con la formula per non avere commesso il fatto, per quanto riguarda il generale dell’Arma, Mario Mori e per gli ufficiali dei carabinieri Antonio Subranni e Giuseppe De Donno. I giudici della sesta sezione hanno inoltre decretato l’assoluzione definitiva per l’ex parlamentare Marcello Dell’Utri e riconosciuto la prescrizione per il boss di Cosa Nostra, Leoluca Bagarella e per il medico Antonino Cinà, ritenuto vicino a Totò Riina. In aula, al momento della lettura del dispositivo, era presente Mori che lasciando la Cassazione ha affermato di sentirsi «parzialmente soddisfatto» della decisione, «considerando che per 20 anni mi hanno tenuto sotto processo. Ero convinto di non avere fatto nulla, il mio mestiere lo conosco, so che se avessi sbagliato me ne sarei accorto».

Nelle motivazioni, rese note poi il 10 novembre, si legge che «la Corte di assise di appello» ha «invertito i poli del ragionamento indiziario», in quanto «l'esclusione di possibili ipotesi alternative non può supplire alla carenza di certezza dell'indizio». Inoltre, la Corte di assise di appello di Palermo «non ha osservato il canone dell'oltre ogni ragionevole dubbio quale metodo di accertamento del fatto». Ad avviso degli «ermellini», «come rilevato dal Procuratore generale presso la Corte di Cassazione e dalle difese degli imputati, l'argomento del "nessun altro avrebbe potuto" si rivela fallace sul piano logico e giuridicamente errato, in quanto la confutazione delle spiegazioni alternative di un fatto non può supplire alla radicale mancanza di prova positiva del fatto medesimo».

Secondo la Suprema Corte, i giudici di merito dell'appello - convinti della tesi che ai mafiosi il Guardasigilli Conso non rinnovò il 41bis per cercare di spegnere la stagione stragista e non, come lo stesso Conso sostenne, per adeguarsi alle indicazioni della Consulta - hanno sbagliato a ritenere «che solo Mori potesse aver rivelato l'informazione relativa al ricatto mafioso e alla spaccatura in essere all'interno di Cosa Nostra, senza aver previamente dimostrato, oltre ogni ragionevole dubbio, che questa informazione riservata non fosse previamente nota al ministro, che costituisse patrimonio conoscitivo esclusivo» di Mori «e che non fosse pervenuta a conoscenza del ministro per effetto di canali diversi ed autonomi».

Per la Cassazione, in sostanza, «fermo restando il riconoscimento per l'impegno profuso nell'attività istruttoria dai giudici di merito, deve, tuttavia, rilevarsi che la sentenza» emessa dalla Corte di Assise di Appello di Palermo il 23 settembre 2021 «e ancor più marcatamente quella di primo grado, hanno, invero, optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico».

«Anche quando il giudice penale deve confrontarsi con complessi contesti fattuali di rilievo storico-politico, l'accertamento del processo penale resta, invero, limitato a fatti oggetto dell'imputazione e deve essere condotto - conclude la Suprema Corte - nel rigoroso rispetto delle regole epistemologiche dettate dalla Costituzione e dal codice di rito, prima tra tutte quella dell'oltre ogni ragionevole dubbio». Un conto è la storiografia, un conto la giustizia penale.

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