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Napolitano e le telefonate con Mancino: un conflitto vinto con i pm di Palermo

L'allora capo dello Stat venne intercettato per caso. Le registrazioni dei colloqui vennero distrutte senza essere mai conosciute

Mancino e Napolitano

Quattro telefonate, tra il 7 novembre 2011 e il 9 maggio 2012, tutte intercettate durante l’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, con intercettazioni legittimamente disposte ed eseguite. Al telefono nomi illustri: da una parte l’ex presidente del Senato, ex ministro dell’interno ed ex vicepresidente del Csm Nicola Mancino; dall’altra il presidente della Repubblica allora in carica Giorgio Napolitano, morto ieri, 22 settembre, a Roma. ù

L’utenza intercettata, con regolare autorizzazione di un giudice, era quella di Mancino, indagato nel procedimento e poi assolto, ma nelle conversazioni era casualmente finito il capo dello Stato, al quale la Costituzione attribuisce garanzie particolari. Cosa bisognava fare allora di quelle quattro telefonate, la cui esistenza - ma mai il contenuto - era finita sui giornali? Distruggerle senza farle conoscere ad alcuno, stabilì la Corte Costituzionale, cosa che avvenne nel 2013, dopo una lunga stagione di polemiche e veleni.

La Procura di Palermo aveva valutato quelle intercettazioni come irrilevanti e riteneva che dovessero, sì, essere distrutte, ma seguendo la via ordinaria disegnata dall’art. 269 del codice di procedura penale: un’udienza di fronte al gip e alla presenza delle parti, che, se interessate, hanno diritto di acquisire atti a loro utili. Procedura, che, invece, fu valutata come assolutamente impercorribile dal presidente Napolitano, dal momento che avrebbe creato un vulnus alle prerogative costituzionali del presidente della Repubblica: i pubblici ministeri palermitani - secondo la tesi dell’allora capo dello Stato - non erano neppure legittimati a valutare quelle intercettazioni come irrilevanti e avrebbero dovuto chiederne immediatamente al giudice la distruzione, senza alcun coinvolgimento delle difese degli indagati. Al riguardo negli atti del Quirinale venivano citati l’articolo 90 della Costituzione e l’articolo 7 della legge 5 giugno 1989, n.219: «Salvi i casi di alto tradimento o attentato alla Costituzione e secondo il regime previsto dalle norme che disciplinano il procedimento di accusa, le intercettazioni di conversazioni cui partecipa il presidente della Repubblica, ancorché indirette od occasionali, sono invece da considerarsi assolutamente vietate e non possono quindi essere in alcun modo valutate, utilizzate e trascritte e di esse il pubblico ministero deve immediatamente chiedere al giudice la distruzione».

La controversia - un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato - fu risolta dalla Corte Costituzionale, che diede ragione a Napolitano, riconoscendo al capo dello Stato una «tutela rafforzata: il presidente della Repubblica deve poter contare sulla riservatezza assoluta delle proprie comunicazioni, non in rapporto ad una specifica funzione, ma per l’efficace esercizio di tutte».
Quelle intercettazioni furono distrutte il 22 aprile 2013, e dal quel giorno il loro contenuto resta unicamente nella memoria dei pm titolari delle indagini e degli operatori di polizia giudiziaria che captarono quelle quattro telefonate.

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