«I francesi ispezionarono l’area dove la sera del 27 giugno 1980 si inabissò il Dc9 dell’Itavia autonomamente, senza avvisarci: sui fondali del relitto trovammo tracce di mezzi che erano già stati nella zona».
A parlare è Leonardo Lecce, esperto aeronautico che faceva parte della commissione nominata dal giudice istruttore Vittorio Bucarelli che tra il 1984 ed il 1990 svolse la perizia sul caso. Lecce era a bordo del “Nadir”, nave della società statale francese Ifremer - qualcuno dice legata ai servizi transalpini - incaricata del recupero del velivolo a quasi 4mila metri di profondità nel Tirreno.
«Ciò che ha detto Giuliano Amato nell’intervista di ieri è coerente con quello che ho potuto accertare con le indagini svolte in quegli anni: l’aereo è stato colpito da un missile e l’operato dei francesi non è stato trasparente», sostiene.
Fin dall’inizio ci sono state opacità, secondo l’esperto. «Per poter ricostruire quanto accaduto - spiega - era fondamentale recuperare i resti del velivolo. Contattammo per prima una società privata americana: ci dissero che erano impegnati e furono proprio loro a segnalarci Ifremer. Non avendo alternative scegliemmo quest’ultima».
Con tre missioni la Nadir ha riportato in superficie circa il 70% del peso del Dc9, compresi motore, fusoliera e piani di coda.
«Secondo la nostra perizia - ricorda - l’aereo non si è disintegrato in volo, come sostenuto dagli assertori della bomba a bordo, ma è arrivato integro all’impatto con l’acqua. Abbiamo evidenze lampanti di questo: i pezzi sono stati trovati in un’area di un paio di chilometri mentre nel caso di aerei affondati per l’esplosione di ordigni a bordo i resti furono si sparpagliarono entro un’area decisamente maggiore, fino a 40 km».
Inoltre, aggiunge, «non è stata mai rilevata la presenza di bruciature all’interno dell’aereo; sui sedili non c’erano tracce di fiamme, cuscini e schienali erano nella fusoliera e non erano stati proiettati fuori come sarebbe avvenuto se ci fosse stata un’esplosione all’interno del velivolo».
Il Nadir fece tre spedizioni tra il 1987 ed il 1988 nel mare di Ustica. Lecce seguì le operazioni a bordo della nave per conto della commissione.
«Durante questi due anni - osserva - abbiamo avuto la sensazione, poi confermata dalla stessa Ifremer, che loro fossero tornati sul posto in maniera autonoma, senza avvertirci. Ci dissero che l’avevano fatto per la messa a punto delle attrezzature per il recupero. Ma noi, guardando tutte le riprese video che venivano fatto, ci accorgemmo che sul fondale c’erano solchi di un mezzo che era stato movimentato e ciò ci fece pensare».
Non è il solo elemento che induce l’esperto a guardare con sospetto verso la Francia. «Noi - rileva - facemmo indagini a tappeto sui radar, militari e civili, per cercare di capire cosa era successo quella notte. Verso la fine del nostro incarico il giudice Bucarelli ci chiamò una notte per mostrarci il tracciato prodotto da un sito dell’Aeronautica a Poggio Ballone, in Toscana: la traccia aveva un percorso molto particolare, circolare e non rettilineo, in prossimità della Corsica. Una traccia inconfondibilmente identificabile come quella lasciata da un aereo radar, un Awacs della Nato, in contemporanea con l’evento di Ustica. Le operazioni militari necessitano di una sorveglianza in loco, per questo c’era evidentemente l’Awacs. In Corsica navigava in quelle ore la portaerei francese Clemenceau. Ciò dimostra che i francesi hanno dati radar che, a mia conoscenza, non sono stati mai consegnati all’autorità giudiziaria».
E se è vero che non ci sono segreti di Stato sul caso da parte dell’Italia, come affermato ieri dalla premier Giorgia Meloni, Lecce ricorda che l’indagine svolta successivamente dal giudice Rosario Priore «si fermò davanti al quartier generale della Nato. I tracciati radar di Marsala erano coperti dal codice Nato ed alla richiesta del magistrato di decodificarli l’Alleanza Atlantica rispose negativamente».
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