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Stipendi tra i più leggeri del Paese, nero e precarietà affossano la Sicilia

Nell'Isola la paga quotidiana media è pari a 73 euro, a fronte dei 101 euro degli occupati nelle zone settentrionali

Protesta precari Oss Palermo

Che esistesse una differenza tra Nord e Sud era cosa risaputa, pure alle pietre, ma forse non fino a questo punto: se gli occupati nelle regioni settentrionali percepiscono una retribuzione media giornaliera lorda di 101 euro, i colleghi meridionali ne guadagnano 75, con i primi che portano a casa uno stipendio del 35% più pesante dei secondi, un’asticella che sale al 38% se paragonata alla paga quotidiana dei siciliani, pari a 73 euro per 16.507 l’anno compresi contributi e addizionali.

A far di conto ci ha pensato ieri la Cgia di Mestre, in un report che, tenendo conto degli importi del 2022, piazza l’Isola al penultimo gradino d’Italia per buste paga, superata al ribasso solo dalla Calabria, dove la media del giorno ammonta a 68 euro, e lontanissima dalla Lombardia, prima nel podio dei più «fortunati» con 110 euro lordi (28.354 annuali).

Ma all’interno della Sicilia, e in scala provinciale, c’è chi arriva a retribuzioni ancor più basse. È il caso del territorio trapanese, dove la soglia media annua va di un soffio oltre i 14.365 euro, risultando quart’ultima in Italia. Poco più su, e tra le ultime dieci posizioni, troviamo Ragusa (14.882), Agrigento (14.944) e Messina (15.170), mentre Enna (15.791) stenta a raggiungere la quota regionale, superata invece da Caltanissetta (17.144), Palermo (17.281), Catania (17.533) e Siracusa (17.598), il tutto, va ricordato, di fronte a costi della vita in progressivo aumento.Ma come spiegare il divario tra Nord e Sud? Il gap, rimarca l’associazione degli artigiani, è sostanzialmente dovuto alla produttività del lavoro, che nelle regioni settentrionali è del 34% superiore al dato dell’area meridionale. Così, se in Lombardia il valore aggiunto per un’ora di occupazione sfiora i 46 euro, nel caso dell’Isola è di appena 32 euro, mentre gli squilibri retributivi, oltre che fra le diverse zone dello Stivale, spiccano anche fra città e campagne.

Tutti temi, ricorda la Cgia, che «le parti sociali hanno tentato di risolvere, dopo l’abolizione delle cosiddette gabbie salariali avvenuta nei primi anni ‘70, attraverso il contratto collettivo nazionale del lavoro, la cui applicazione, però, ha prodotto solo in parte gli effetti sperati. Le disuguaglianze salariali tra le ripartizioni geografiche sono rimaste e in molti casi sono addirittura aumentate, perché nel settore privato le multinazionali, le utilities, le imprese medio-grandi, le società finanziarie, assicurative e bancarie, che tendenzialmente riconoscono ai propri dipendenti stipendi molto più elevati della media, sono ubicate prevalentemente nelle aree metropolitane del Nord.

Le tipologie di queste aziende dispongono anche di una quota di personale con qualifiche professionali (manager, dirigenti quadri e tecnici) superiore e con livelli di istruzione alti, cui va corrisposto uno stipendio importante. Infine, non va nemmeno scordato che il lavoro irregolare, molto diffuso nel Mezzogiorno, da sempre provoca un abbassamento dei salari contrattualizzati dei settori che tradizionalmente sono investiti da questa piaga sociale, vedi agricoltura, servizi alla persona e commercio».

Le soluzioni? Come ha avuto modo di segnalare anche il Cnel, il problema dei lavoratori poveri, continua l’associazione, «non parrebbe riconducibile ai minimi tabellari troppo bassi, ma al fatto che durante l’anno queste persone lavorano “poco”. Pertanto, più che a istituire un minimo salariale per legge, andrebbe contrastato l’abuso di alcuni contratti a tempo ridotto. Altresì, per innalzare gli stipendi dei dipendenti, in particolar modo di quelli con qualifiche professionali minori, bisognerebbe continuare nel taglio dell’Irpef e diffondere maggiormente la contrattazione decentrata: avendo una quota di lavoratori coperto dalla contrattazione collettiva nazionale tra le più alte a livello europeo, dovremmo “spingere” per diffondere ulteriormente anche la contrattazione di secondo livello, premiando, in particolar modo, la decontribuzione e il raggiungimento di obbiettivi di produttività, anche ricorrendo ad accordi diretti tra imprenditori e dipendenti».

Quanto alla speciale classifica delle ore d’occupazione, premesso che al Nord si lavora 28 giorni in più all’anno che al Sud, mentre Lecco, Vicenza e Biella risultano le province più «stacanoviste» con oltre 262 giornate, Agrigento, Messina e Trapani si piazzano tra le ultime dieci, totalizzando, rispettivamente, 215, 212 e 211 giorni. I motivi dell’ammanco restano gli stessi, tra lavoro in nero, dunque «fantasma», precarietà e occupazione a intermittenza come quella stagionale.

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