PALERMO. Negli anni ’80 le insegne dei bar storici erano paragonabili a quelle delle grande griffe di oggi. Una simbologia che racchiudeva capacità imprenditoriale e qualità dei prodotti. Attorno a loro uno spaccato sociale che si dava appuntamento davanti a una tazzina di caffè.
Ma il bar era soprattutto la raffinatezza della pasticceria, i luogo del dopo teatro, dove cultura e società si guardavano negli occhi. Cosa è rimasto di tutto questo? Quasi nulla. Uno dopo l’altro, i bar storici sono scomparsi, e i pochi che resistono lo fanno con il coltello tra i denti. Dall’Extrabar di piazza Politeama al Caflisch di G.B., da Roney a Mazzara, al Ciro’s, e pochi giorni fa anche il bar Alba, come anticipato dal Giornale di Sicilia, a un passo dalla chiusura come Oliver, il wine bar tra via Libertà e via Di Blasi, che si è arresto per i costi di gestione troppi alti.
Per non parlare delle alterne vicende che hanno visto coinvolti il Bristol di via Emerico Amari e il bar Recupero. Uno stillicidio penoso, che va avanti da molti anni, e che ha prodotto un vuoto culturale oltre alla drammatica perdita di posti di lavoro.
L’eleganza del bar era commisurata al tipo di clientela, e si connotava per alcune peculiarità, come l’alta pasticceria. Non solo. C’erano locali a Palermo che erano tappe obbligate anche per usanze e abitudini che solo chi è nato ai piedi di monte Pellegrino può capire.
Come l’«autista» scolato tutto d’un fiato al Pinguino di via Ruggero Settimo dopo una cena ad alto tasso calorico. O come le brioches con gelato del bar Renato, che diventavano la scusa per una passeggiata a Mondello alla prima giornata di sole. Per non parlare della torta Savoia, del cannolo riempito all’istante o del rito del caffè col giornale la domenica mattina consumato per decenni al Caflisch.
«Oggi - osserva Pippo Anastasio, imprenditore del settore food & beverage - il bar non è più il palcoscenico di rappresentanza dei livelli sociali. Prima, l’ambiente ampio in una via importante, le vetrate, i tavolini all’esterno erano il segno di qualcosa di importante. Nel corso degli anni stiamo assistendo a una devianza, che ha trasformato i bar in un tutt’uno con gastronomia e panificio. Si è perso lo spirito, l’eleganza. Non dimentichiamo che i bar storici sono stati anche espressione di una società colta - continua Anastasio - luoghi di stimolo culturale, dove fare incontri stimolanti, dove al tavolo accanto erano seduti scrittori e intellettuali, ma anche gente comune attratta dal fascino dell’ambiente. Non erano certamente luoghi per l’ozio».
Per molti, il bar continua ad essere il primo appuntamento della giornata. Un momento di gratificazione personale. Il buongiorno di chi serve una tazzina di caffè è quell’input che si cerca a tutti i costi per poter affrontare la giornata in chiave positiva, utile quasi quanto una terapia.
E Palermo era piena di questi ambienti carichi di originalità, mai appesantiti dagli anni, rifugio dell’anima.
Una tradizione che è scomparsa, risucchiata dall’uscita di scena di queste insegne, che hanno alzato bandiera bianca prima che la crisi economica investisse il Paese. Tra fallimenti, cattive gestioni e cambi di proprietà.
«Ricordo che la via Ruggero Settimo, nelle prime ore del mattino, era pervasa dall’odore dei dolci appena sfornati - dice Gigi Mangia, ristoratore e, come lui ama definirsi, amante di Palermo -. Noi siamo l’unico Paese dove il pubblico esercente è responsabile della salute del cliente. Se mi guardo attorno vedo solo macerie. Siamo stati in grado di distruggere un patrimonio unico. Caflisch e Roney in viale Libertà, Extrabar al Politeama, Sacchiero in via Ruggero Settimo, la pasticceria svizzera siciliana in via Mariano Stabile, Mazzara in via Magliocco, il bar Cordaro in viale Lazio. Tutti scomparsi. Chiunque si sarebbe dovuto preoccupare, invece nessuno ha speso più di tanto. I bar storici erano occasione di incontro, del saluto, rappresentavano un modo di essere sociali. Queste insegne storiche - continua Mangia - non avrebbero dovuto chiudere, ma, proprio per la loro importanza, andavano preservate, perché rappresentavano dinamicità imprenditoriale e rendevano fascinosa la città agli occhi dei turisti. Ora stiamo subendo la trasformazione dei pubblici esercizi. E tra tasse e costi del personale si arriva a strangolare l’azienda. È necessario ripartire da una regolamentazione. Le associazioni di categoria devono prendere posizione su questi aspetti, altrimenti lascino spazio a chi può fare qualcosa».
Le insegne storiche chiudono, e lasciano a bocca aperta migliaia di palermitani. Passano di mano in mano, da gestione a gestione. I lavoratori sono quasi merce di scambio in un gioco al massacro, dove chi vince mantiene il posto di lavoro e uno stipendio che si riduce sempre di più.
Non tutti i bar con una storia alle spalle hanno mollato. Alcuni resistono, tengono duro, ma il costo da pagare è salato.
La pasticceria Massaro è tra questi. Francesco Massaro è giovane, e sa benissimo che ogni giorno di sopravvivenza sul mercato è una sfida superata. Ma per quanto?
«Le aziende con molti dipendenti sono destinate a soccombere, è solo questione di tempo - afferma Massaro - Tra stipendi, contributi, tasse resta ben poco. È riduttivo parlare di incassi se non si ha idea di quanti soldi servono per mantenere l’impresa, e, credetemi, sono molto di più di quanti ne entrano. Infatti - continua Massaro - non mi meraviglio quando leggo che grandi bar come Alba e Mazzara, con 50 dipendenti, chiudono. Di questo passo, gli unici bar che sopravvivranno saranno quelli a conduzione familiare con un massimo di cinque dipendenti. Io mi ripeto ogni sera che ci vuole un gran fegato per affrontare una giornata di lavoro, sapendo che hai 40 dipendenti e costi enormi da sostenere».
Il fattore imprenditoriale sembra non essere più fondamentale, se oggi si vuole portare avanti qualsiasi attività commerciale. Al di là anche della qualità dei prodotti in vendita, della cortesia del personale, a non fare dormire tranquilli ci sono altri fattori.
«Chi sta dentro la legalità a tutti i costi deve pagare un prezzo - conclude Massaro - c’è chi preferisce allacciarsi abusivamente a una fonte di energia, c’è chi paga in nero i dipendenti e vive tranquillo, come se fosse una forma di legittima difesa. Io non faccio nulla di tutto questo ma mi ritrovo a dover fare i conti per resistere - conclude l’imprenditore -. E non credo nemmeno a quelle aziende che prendono sempre più spazio, aprendo bar a destra e manca, come se fosse il gioco del Monopoli. Inevitabilmente sono destinate a chiudere. Io ho dovuto stringere sui costi del personale, ho chiuso una gelateria, ho dovuto ricompattare tutto sotto un unico tetto. E questo mi è costato tanto».
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