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La strage per il pane a Palermo e 80 anni di silenzio

Il 19 ottobre del 1944 i soldati del 139° fanteria spararono sulla folla in via Maqueda, davanti a Palazzo Comitini, soffocando la protesta

La strage di uomini, donne e ragazzi fu eseguita, con ferocia inaudita e nell’arco di pochi istanti, nella tarda mattinata di giovedì 19 ottobre 1944, in via Maqueda, davanti Palazzo Comitini allora sede della Prefettura e dell’Alto Commissariato della Sicilia. Una folla spontanea di manifestanti, non meno di tremila, senza armi e disperata, giunse in quel luogo, proveniente da via Cavour e da piazza Verdi, per reclamare pane e generi di prima necessità ma anche per denunciare l’imperante mercato nero in cui «intrallazzisti» e speculatori senza scrupoli agivano impunemente a danno dei più poveri. Una quota di quella massa di popolo, è bene precisare, era costituita da impiegati comunali che chiedevano l’aumento dello stipendio perché quello promesso loro dalle autorità non era adeguato al costo della vita. Diversi testimoni oculari hanno sempre concordemente sostenuto che davanti la prefettura quel giorno, poco prima dell’eccidio, si protestava ad alta voce e si brandivano solo randelli e rami strappati dagli alberi posti nelle vicinanze del Teatro Massimo. Nulla di più.

Ad un certo punto un’improvvisata delegazione di manifestanti chiese di essere ascoltata dal prefetto e dall’alto commissario. Le cose si complicarono quando si apprese che i rappresentanti del governo, gli onorevoli Paolo D’Antoni e Salvatore Aldisio, erano a Roma. La protesta si fece più intensa al punto che un nutrito gruppo di manifestanti provò a forzare, senza riuscirci, il possente portone del palazzo. Un vice prefetto, che in quel momento era la più alta carica governativa in città, in preda a paura e preoccupazione, invece di sedare gli animi, si affrettò a telefonare al Comando militare del regio esercito in Sicilia per chiedere rinforzi ossia un congruo contingente di soldati armati di tutto punto.

Evidentemente, a giudizio di costui (o di altri?), il nucleo di carabinieri armati in servizio davanti Palazzo Comitini non era in grado di fronteggiare la situazione. La richiesta «stranamente» venne prontamente accolta dai comandi della divisione Sabaudia: il più alto in grado era il generale Giuseppe Castellano, colui che l’8 settembre del 1943 firmò a Cassibile il famoso armistizio con gli angloamericani. Poi, dopo la strage del 19 ottobre, venne rimosso dal comando su richiesta dall’allora sottosegretario di Stato all’Educazione, l’onorevole Bernardo Mattarella che evidenziò come Castellano non solo «ha frequentato circoli separatisti» ma «ha fallito nel ricondurre alla disciplina gli ufficiali e le truppe alle sue dipendenze». Arrivati in via Maqueda, provenienti dalla caserma Scianna, dopo una misteriosa sosta davanti gli uffici della Questura in piazza Vittoria (sono stati dati ulteriori ordini? E da chi?), i 50 soldati del 139° fanteria (divisione Sabaudia), quasi tutti sardi e comandati dal tenente Lo Sardo, nativo di Canicattì, armati ciascuno di moschetti, due pacchetti di cartucce e bombe a mano tipo Breda, senza alcuna provocazione (come ha detto a chi scrive, nel 1995 e nel 2004, l’ex soldato sardo Giovanni Pala che allora, come è stato accertato, si rifiutò di sparare sulla folla) cominciarono all’improvviso a fare fuoco e lanciare bombe a destra e a manca.

 

Una carneficina. Tragico il bilancio: 24 morti e 158 feriti, fra loro molti ragazzi o addirittura bambini come i superstiti Giovanni Ficarotta (vivente, allora aveva 9 anni) e Gaetano Balistreri (recentemente deceduto, che, nel ’44, di anni ne aveva 10. Nessun morto e nessun ferito grave tra i soldati. L’eccidio, per ferocia e crudeltà, ha rarissimi precedenti negli oltre 160 anni di vita unitaria italiana. Sicuramente i militari ubbidirono ad un ordine preciso e spietato, forse premeditato in ossequio ad una subdola strategia. Sulla strage per il pane, da subito scese il silenzio più assoluto. Il processo-farsa che si tenne il 22 febbraio 1947, al tribunale militare di Taranto, si svolse in maniera sbrigativa e in un clima surreale. I mandanti non sono stati mai individuati e i pochi soldati portati alla sbarra con capi d’imputazione annacquati la fecero franca «per essere, i delitti, estinti da amnistia». Oggi, fra carte d’archivio e testimonianze, se si vuole, si può arrivare alla verità storica che, con molta probabilità, potrebbe risultare del tutto diversa da quella propinata frettolosamente dalle autorità pro tempore («È stata la folla a provocare lanciando bombe») e condita da silenzi omertosi, omissioni, coperture e sabotaggi (del fatto di sangue, dei morti per strada, dei luoghi insanguinati, nei pubblici archivi non si trova nemmeno una foto).

Nei decenni trascorsi si è persino faticato non poco per far collocare nel 1994, a cinquant’anni dai fatti, una lapide commemorativa (proposta ed elaborata da chi scrive) nell’atrio di Palazzo Comitini. L’amministrazione comunale, invece, oltre un decennio fa, ha affisso una targa ricordo in vicolo Sant’Orsola, angolo via Maqueda. Nessuna strada cittadina, a tutt’oggi, è stata intestata alle innocenti vittime della Strage. È auspicabile, inoltre, che le istituzioni della Repubblica, a qualsiasi livello, si prodighino affinché, anche a 80 anni di distanza, si faccia piena luce non solo per onorare le 24 vittime ma, anche, per colmare un vuoto storico frutto di gravi omissioni e di un calcolato intollerabile oblio. Nel frattempo, da queste colonne, accogliendo l’invito di cittadini, superstiti e parenti dei caduti, si rivolge un appello al Presidente della Repubblica perché valuti di concedere in memoria delle 24 vittime della strage per il pane una medaglia d’oro al valor civile. Un giusto riconoscimento per non dimenticare.

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