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Palermo, la vita fra le celle dell’Ucciardone negli scatti dei fotografi Di Leonardo e Valenti

Uno degli scatti della mostra

Quello che ti pare impossibile da sostenere è il concetto di tempo. Perché la prima cosa a saltare per un detenuto sono le ore, i minuti, i secondi. Tutto appare grigio, continuo, persino i compleanni te li sei dimenticati. È un tempo morbido, permeabile, prende la forma dell’acqua, si adatta al contenitore; conta solo il prima. E il dopo. Forse è per questo che gli scatti di Michele Di Leonardo e Salvo Valenti paiono immobili: registrano, segnano, raccontano, senza colori. Non ci sono colori in carcere.

«Ucciardone – 'U Ciarduni» dei due fotografi è nato come reportage fotografico sul mondo delle carceri palermitane, nel 2017 è stato pubblicato da Kalòs. Doveva essere seguito da una mostra poi fatti diversi, il Covid, la vita hanno cambiato i programmi: l’esposizione fotografica nasce ora, stasera (15 ottobre) alle 18,30 l’inaugurazione al Centro internazionale di fotografia ai Cantieri Culturali alla Zisa, a Palermo, dove resterà fino al 12 novembre.

La presentazione sarà un motivo di dibattito sulla situazione delle carceri, ne parleranno Pietro Cannella, Maria Antonietta Spadaro, Monica Capizzano, Anna Fici, Nunzio Brugognone, Fabio Savagnone, Connie Transirico, Marina Finettino. Una sessantina di immagini – nel volume di Kalòs sono molte di più – che raccontano le atmosfere e la quotidianità dell’Ucciardone, nel dialetto palermitano conosciuto come 'U Ciarduni. «Perché qui - spiegano Di Leonardo e Valenti - prima della nascita della fortezza di epoca borbonica, cresceva una piantagione di carduni, di carciofi. Il riferimento, più di uno, è visibile in una scultura in ferro all’interno della struttura».

Il carcere è un mondo a sé e questo si sa benissimo: regole scritte e non scritte, silenzi, gerarchia, spazi ristretti. Le sbarre dappertutto, anche nelle foto, segnano il distacco con la vita «fuori»: quello che avviene all’interno non è pienamente conoscibile. «Il carcere è fatto anche di muri di cinta, sbarre, chiavi, lunghi corridoi, suoni che echeggiano, radio accese qua e là, televisori ad alto volume, file di celle con tanti uomini e donne dentro. Quando si parla di carcere, a meno che non si abbia un’esperienza personale, non si può immaginarne quanto la società rifiuti in maniera netta il reo, sia prima sia dopo la scarcerazione», dice la criminologa Monica Capizzano. «Le fotografie dal carcere fanno riflettere su una realtà così inquietante e controversa del nostro universo sociale, sempre più liquido nella sua assenza di punti di riferimento», si legge nella introduzione di Kalòs.

Michele Di Leonardo e Salvo Valenti non cercano ovviamente l’inquadratura perfetta, il momento topico non esiste: sono racconti di quotidianità vissuta in uno spazio di pochi metri, dove ogni piano di appoggio viene utilizzato; dove ogni oggetto ha un valore diverso, libri ne appaiono pochi, e ricordi ancora meno. «Questi scatti hanno il puro scopo di registrare le atmosfere del luogo nella loro reiterata quotidianità - dice lo storico dell’arte Maria Antonietta Spadaro -. Non percepiamo turbamenti, agitazioni di sorta; certo trascorrere ogni giorno un tempo scandito da rigidi ritmi precostituiti, può portare alla rassegnazione ma anche alla follia». Le fotografie raccolgono momenti diversi, senza alcuna voglia di scattare un’immagine bella: il riposo dei detenuti, la vita nella cella, il relax di una partita a carte, il cibo, la messa domenicale, il rapporto con il sacerdote.

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