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Nelle poesie di Pietro Ernandes la vita senza alibi né scorciatoie

Pietro Ernandes

Bisognerebbe cercare ancora, tra le carte di Pietro Ernandes, perché questo libro di poesie, «Stando così le cose» (Lupi editore), è un esordio tardivo ma purtroppo postumo e lascia dunque squarci di curiosa ma disattesa aspettativa su un universo lirico che, nel caso altri frutti abbia dato, descrive fragilità e impotenza con una consapevolezza che un po’ spiazza e un po’ schianta.

La vita, l’amore, le relazioni personali, il quotidiano colloquio con la sofferenza e la morte urlano in queste trentotto poesie l’esigenza di liberarsi da ogni sovrastruttura sociale ma anche estetica, da ogni ipocrisia lessicale e quasi a dispetto, o forse anche grazie a una costruzione che potrebbe apparire «difficile» nella forma e nel concetto, nella metrica e nel significato, arrivano dritti, puntuti, finanche spietati.

Il leit motiv è la metamorfosi, il cambiamento, la mutazione dell’anima ma anche del corpo in un percorso che, negli anni, sa di non poter cercare scorciatoie e di non avere sconti nemmeno nel sentimento del passato al quale è inibita, preclusa, vietata, ogni possibilità di struggimento, un ricatto a cui l’autore non cede.

Le stesse metafore – in certi casi ardite – riallacciano a qualcosa di fortemente fisico, materiale, come se una vite volesse ancora entrare in un pezzo di legno nonostante le spanature, qualcosa di dolorosamente concreto che riaffiora magari dopo un paio di versi di simbolico respiro in cui sembra che la messinscena (sovrastruttura massima, per l’appunto) delle relazioni personali, sociali, erotiche possa avere la meglio e nascondere la verità. Come in ogni ricerca di un senso della vita, nelle poesie di Pietro Ernandes c’è un presagio di morte, la coscienza di un tempo già scaduto, cercare un appiglio è patetico affanno, talvolta sembra che solo la natura (foglie e fiori che spesso ricorrono) possa insegnarci, lanciare un monito oppure un simbolo di croce (ricorrente anch’esso in senso laico) che però è sacrificio senza salvezza.

Una poesia che non s’arrende al passo rassegnato dei nostri tempi, che denuncia la maschera di quel Carnevale, scritto a bella posta per gli ingenui o per gli ottimisti, che è la vita che, per dirla con l’autore, è in realtà «un mercoledì di coriandoli sui marciapiedi», un colore senza gioia, la consistenza impalpabile e vana del nerofumo.

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