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Giovani registi palermitani si raccontano: dai videoclip al cinema, l'ascesa dei Lupucuvio

Eravamo quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo, cantava Gino Paoli nel ‘91. Loro sono cinque giovani palermitani: Giulio Gulizzi, Gabriele Gulizzi, Roberto Franzitta, Gabriele Morale e Rocco Sulis e, prerogativa talvolta vincente, sono anche molto amici.

I Lupucuvio un gruppo di giovanissimi registi palermitani che dalla più antica comunicazione verbale Devo dirvi una cosa hanno creato un’unione artistica interessante.

Perché Lupucuvio? Un termine che è entrato nel loro immaginario familiare. "Spesso - racconta Giulio - quando cresci ti accorgi di essere un Lupucuvio, cioè uno che non vuole contatti e ha difficoltà ad entrare nel mondo, volendo fare cinema capisci che avere un'attitudine di questo tipo è un problema non da poco".

"Tutto nasce dall'incontro con Gabriele e Roberto, noi nel 2017 ci siamo incontrati e abbiamo avuto modo di conoscerci facendo il primo corto di Morale, dato che lui aveva chiesto un'assistenza tecnica; ci siamo conosciuti veramente al montaggio, e ancora non eravamo amici. Poi col passare del tempo tutti noi eravamo sempre più indirizzati verso l'ingresso del mondo del cinema, anche se in modo diverso, e quindi nel gennaio 2019 è nata la Lupucuvio, decidendo di unire le forze fisiche e monetaria, per cominciare a creare una rete di conoscenze per permetterci di realizzare i vari film”.

Il loro primo progetto

"Fumo di scena ancora non è finito, causa Covid-19 e rinvii serve ultimare qualcosa con il doppiaggio. Questo è stato l'inizio vero ed effettivo di ciò che poi volevamo fare. All'inizio abbiamo fatto videoclip pubblicandoli su Instagram e Youtube, ma il nostro vero obiettivo era provare a fare corti e film, come in questo caso".

Quanto è difficile decidere di fare il grande salto verso la produzione cinematografica in questa terra partendo da videoclip?

"Noi nasciamo con l'idea di fare fin da subito il cinema, i videoclip sono un passaggio che serve per guadagnare soldi, utili per comprare attrezzature. Il nostro obiettivo principale è sempre stato quello di fare cinema, unire idee per arrivare ai nostri progetti, ai nostri corti. A Palermo il discorso è particolare: noi fortunatamente stiamo creando una rete di contatti. Noi nella produzione abbiamo pagato poche persone, poi in tutti i luoghi abbiamo convinto tutti a concederci gratuitamente luoghi e tempo, quindi le difficoltà ci sono perché più vai avanti e capisci che convincere la gente non è facile. Ad un certo punto ci sono degli impedimenti, anche di tipo economico. Arrivi ad un punto in cui o cominci a cercare una produzione, dei soldi, oppure non riesci ad andare avanti. Serve entrare in uno schema produttivo, poi noi ricerchiamo anche una sorta di libertà".

Questo documentario basato sul girare e vedere come si muove il meccanismo d'azione, la macchina della regia e non palermitana. Come nasce l'idea e a chi è rivolta?

"L'idea nasce da una persona, Enrico Usti, lui scrive delle poesie. Vuole diventare, o magari già lo è, poeta. Un'altra parte dell'idea invece nasce da noi, infatti conosciamo tante persone e ragazzi della nostra età che fanno qualcosa in ambito artistico a Palermo e non solo. Il film sarà diviso in due parti: una prima in cui c'è una sorta di coralità, e ci sarà anche uno scontro tra una vecchia guardia a persone che magari fanno teatro o si occupano di cinema da una vita come Umberto Cantone. Successivamente ci sarà questo passaggio focalizzandosi sulla figura di questo poeta, e attraverso lui fare un percorso dentro Palermo, lui è una sorta di poeta di periferia, un poeta molto bistrattato. Poi ci siamo anche noi, una sorta di film nel film, con noi che vogliamo realizzare il nostro progetto, quindi andremo incontro a tutte le difficoltà che questa cosa comporterà, infatti la questione fulcro è la mancanza di un discorso, di un dibattito nel panorama cittadino. Il film muore e ricomincia tante volte perché arriviamo ad un punto in cui non sappiamo come andare avanti, e quindi si deve trovare un altro modo. Il nome provvisorio del documentario è 'Cosa avrà voluto dire il poeta?'".

Quando avete fatto questa scelta come è stata vista? C’è ancora molto scetticismo?

"Nel nostro caso penso di no, dice Giulio. Tutti noi abbiamo famiglie che ci hanno supportato nella nostra scelta. Sicuramente il problema esiste, ma forse in qualche modo sta cambiando il modo in cui viene visto questo lavoro. Ci sono sempre più persone giovani che trovi in questo ambiente, ma anche ambienti diversi sebbene simili: musica, teatro, campi artistici variegati. Quindi si fa una sorta di 'partito', non è più visto come un capriccio se facciamo unità. Magari a volte c'è il supporto ma non c'è la comprensione. Però questa molto spesso manca tra giovani. I nostri genitori si sono conosciuti attraverso il teatro e quindi abbiamo sempre avuto questa impostazione, anche se qui poi il discorso cambia. Oggi per fortuna vige culturalmente l'idea che ognuno deve fare quello che ama".

Nell'ultimo periodo molti ragazzi stanno tornando a Palermo, e questa è una cosa che fa piacere.

"Sarebbe bello restare qui, anche se noi andremo a studiare cinema a Roma. Per quanta esperienza possiamo aver fatto serve una formazione più accademica. In futuro potrebbe essere bello tornare e mettere sul campo ciò che abbiamo imparato. Noi, pur facendo cose molto legate a Palermo, non siamo costretti a raccontare Palermo. Non c'è un'idea di valorizzazione folkloristica su ciò che facciamo, c'è invece un'idea di discorso che si può fare su Palermo. Il sogno è poter fare il cinema da Palermo, ma il problema è che è difficile: noi adesso abbiamo 20 anni, e possiamo faticare tanto avendo delle famiglie alle spalle, ma un giorno tutto questo non ci sarà più. Ci saranno meno forze e meno risorse e dunque sarà più difficile".

A chi vi ispirate sotto l'aspetto cinematografico?

"Ci sono delle preferenze individuali. E' lo scambio il punto, non l'elemento comune. Fellini, Marco Ferreri naturalmente sono registi che ci hanno segnato, così come Maresco. Marco Ferreri raccontava il suo tempo, quell'Italia degli anni '70-'80 e attraverso un occhio grottesco, surreale, violento. Lo stesso documentario che sto scrivendo - dice Giulio - si ispira alla commedia e alla realtà che vivo, raccontato con un occhio asettico".

"Io ho un'idea molto diversa - racconta Roberto -, per esempio il film "Sparagna" non l'avrei mai potuto fare. Io tendo a rendere tutto più triste. Ciononostante io questo film lo sento mio, malgrado non l'abbia scritto o diretto, per come ne abbiamo parlato, aiutato Giulio a prendere decisioni. Io sono fierissimo di questo film"
"Al momento vedo pochi film, molti ne abbiamo visti in adolescenza. All'epoca non si studiava, tornavi a casa da scuola e riuscivi a guardare anche tre film al giorno. Poi - racconta Gabriele Gulizzi - facendo altro, lavorando e leggendo, non trovi più tanto tempo. Forse sono stato influenzato più da scrittori che da registi, anzi. Si continua comunque a guardare film, magari guardandone uno al giorno".

"Ho iniziato a guardare veramente molti film relativamente da poco, dallo scorso lockdown. Da lì ho iniziato a guardarne anche due al giorno, acquisendo - dice Rocco - un parere sul cinema di ieri e oggi. Ora un po' meno per il periodo difficile e strano. Ho cominciato a vedere film quando ero molto piccolo spinto da mio padre, e infatti ho visto film che non avrei dovuto vedere per la mia età di allora perché non li capivo.’

Sicuramente uno o due film al giorno provo a vederli - racconta Gabriele Morale -, ma soprattutto rivederli è importante perché poi cambia il modo in cui lo guardi. Per me è stata una fortuna vedere con i ragazzi della Lupucuvio per la prima volta 8 1/2 di Fellini, perché così condividi subito sensazioni ed emozioni. Quel film mi è rimasto in mente perché è un film sul cinema e vederlo con delle persone che hanno i tuoi stessi interessi riguardo il cinema è stato molto formativo".

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