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Bayesian, le ammissioni dopo il naufragio: «Potevo chiudere i portelli prima»

Il marinaio di guardia Matthew Griffiths ha anche detto di non avere avvisato subito il comandante. La Procura di Termini Imerese indaga sulle contraddizioni tra i racconti dei superstiti e sull'orario in cui lo yacht è colato a picco

«Non credo potesse essere salvata la barca, potevo chiamare il capitano prima, potevo aver chiuso prima i quattro portelli piccoli sulla prua». È uno dei passaggi chiave di Matthew Griffiths, il giovane marinaio che quella notte era di guardia sul Bayesian e che oggi figura tra gli indagati per il naufragio del veliero affondato davanti a Porticello.

Il 19 agosto del 2024, in pochi minuti, l’imbarcazione di lusso lunga 56 metri si è rovesciata e inabissata a 50 metri di profondità. Sette persone non sono riuscite a salvarsi: il magnate inglese Mike Lynch e sua figlia Hannah; Jonathan Bloomer, presidente di Morgan Stanley International e la moglie Judith; l'avvocato americano Chris Morvillo e la moglie Neda, e il cuoco di bordo Recaldo Thomas.

Le parole di Griffiths

Griffiths, ventitreenne francese, fu sentito nei giorni successivi e poi indagato dal sostituto procuratore Raffaele Cammarano per naufragio colposo e omicidio plurimo colposo. Insieme a lui, anche il comandante James Cutfield e l’ufficiale di macchina Tim Parker Eaton. «Per me la barca è come una bimba, è molto triste vedere com’è andata» ha detto.

«Per tutta la notte ho visto una tempesta che stava arrivando verso di noi, già dall’una. Fino alle 4 non mi ero preoccupato». E ancora: «Durante il turno erano aperti i portelli sulla prua, le scale che portavano al lazareth che sta a poppa e poi le scale che portano al fly bridge». Racconta di avere bussato alla cabina del comandante solo alle 4.10, quando l’ancora non teneva più e il veliero stava arando il fondale. Una tempistica che non coincide con quanto hanno accertato gli investigatori.

La ricostruzione

Secondo le analisi della guardia costiera, la barca aveva iniziato a scarrocciare già alle 3.57. In meno di dieci minuti la tempesta l’avrebbe travolta, facendole perdere stabilità fino al ribaltamento definitivo. I tracciati elettronici e le immagini di alcune telecamere confermano che alle 4.06 il veliero era già scomparso, mentre i sopravvissuti hanno sempre collocato il naufragio quasi venti minuti dopo, tra le 4.20 e le 4.24.

Le aperture e i motori

Per gli inquirenti, a peggiorare la situazione furono le aperture lasciate incustodite e il mancato utilizzo immediato dei motori. Alcuni componenti dell’equipaggio, mentre il vento soffiava a oltre 120 chilometri orari, si sarebbero messi a spostare piante e cuscini con porte e finestre ancora aperte, permettendo a grandi quantità d’acqua di entrare nello scafo.

«Non ero preoccupato, credo fosse una normale raffica di vento, il capitano avrebbe avviato i motori e fatto quel che doveva fare, non è andata così» ha raccontato Griffiths. I generatori erano già stati attivati, ma la sala macchine si è allagata prima che si riuscisse a mettere in moto i propulsori. Il blackout ha reso vano ogni tentativo di governare il veliero.

Il salvataggio di Sophie

Nel caos di quei minuti, il primo ufficiale olandese Tijs Koopmans riuscì a strappare alla morte la più piccola dei presenti: «Ho preso la bambina e l’ho data alle persone che stavano sopra». Subito dopo liberò la zattera di prua che consentì a quindici persone di sopravvivere in mare aperto.

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