Palermo

Lunedì 18 Agosto 2025

Mafia a Palermo. Gino u mitra e l’oro del clan: «Mai avuto legami con lui»

I lingotti che viaggiavano nascosti nelle auto, frutto della fusione di collane, bracciali e anelli rubati, sono stati per anni la forma più redditizia di riciclaggio di Cosa nostra. Un sistema che passava dai compro oro compiacenti e portava i vari oggetti di valore, rubati in precedenza, in varie fonderie soprattutto della Campania, in modo da trasformarli in merce «pulita e immacolata». In pochi anni, tra il 2016 e il 2018, sarebbero transitate in città oltre due tonnellate d’oro per un valore superiore a 75 milioni, con il sostegno del boss della Kalsa Luigi Abbate, detto Gino u mitra, che aveva finanziato l’avvio del business con centomila euro. È la cornice investigativa in cui si inserisce il processo ai fratelli Luca, accusati di avere gestito uno dei canali più affidabili per la fusione clandestina e la rivendita del metallo prezioso. «Facemu d’accussì… facemu i virghi», diceva Vincenzo Luca in un’intercettazione del 2013, evocando le barre ricavate dai gioielli o dai rottami d’oro che venivano liquefatti per poi realizzare piccoli lingotti. Un viaggio all’alba «cu papà» per portarle a Napoli, destinazione abituale per questo tipo di operazione. Davanti alla quinta sezione penale del Tribunale, queste parole sono state al centro del controesame di Rosario Luca, in carcere insieme a Vincenzo, mentre l’altro fratello Francesco si trova ai domiciliari. Un passaggio chiave nel processo sull’oro sporco di Cosa nostra che vede imputate altre 36 persone. L'articolo completo oggi sul Giornale di Sicilia in edicola e nell'edizione digitale. 

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