Il processo sull’omicidio di Mico Geraci (nella foto) si è aperto ieri davanti alla seconda sezione della Corte d'Assise, presieduta da Vincenzo Terranova, in un clima carico di aspettative. Era la sera dell'8 ottobre 1998 quando il sindacalista della Uil venne assassinato a Caccamo: a distanza di oltre ventisette anni, la ricerca della verità si trova ora al centro di un’aula giudiziaria con l'accusa rivolta contro i fratelli Salvatore e Pietro Rinella, ritenuti i mandanti del delitto con l’approvazione di Bernardo Provenzano.
In aula, c’era anche Giuseppe Geraci, il figlio di Mico: «Stiamo cercando di capire - ha detto - se oltre al movente legato al suo impegno antimafia, ci possano essere altri profili legati soprattutto al suo impegno politico. Ed è proprio l'interesse di Provenzano che ci fa capire come mio padre sia stato particolarmente ostile agli interessi di Cosa Nostra».
Il dibattimento è cominciato con una serie di questioni tecniche che hanno occupato la prima udienza, ma entrerà nel vivo il 26 febbraio quando verranno sciolti i nodi sull’ammissibilità di alcune costituzioni di parte civile e saranno ascoltati i carabinieri che hanno seguito le indagini.
Nel procedimento si erano costituiti come parte civile la Uil, assistita dall'avvocato Ettore Barcellona; il Comune di Caccamo, rappresentato dall'avvocato Fabio Trizzino; il Centro Pio La Torre, difeso dall'avvocato Francesco Cutraro; la Regione Siciliana e i familiari della vittima – la moglie e i figli – rappresentati dagli avvocati Giuseppe Crescimanno e Armando Sorrentino.
Decisivo per la riapertura del caso è stato il contributo di alcuni collaboratori di giustizia, Emanuele Cecala, Andrea Lombardo e Massimiliano Restivo che avrebbero svelato i retroscena dell’assassinio del sindacalista maturato nell’ambito di interessi mafiosi legati al controllo del territorio e al potere economico.
Per la Procura, il delitto venne materialmente realizzato da due giovani, Filippo Lo Coco e Antonino Canu, poi entrambi morti ammazzati: il primo venne ucciso il 7 novembre 1998, su ordine dei Rinella, e il secondo il 27 gennaio del 2006. Mico Geraci dava fastidio perché nei comizi aveva denunciato diverse anomalie nella gestione del piano regolatore e dell’acqua pubblica da parte dell’amministrazione comunale di Caccamo che poi era stata sciolta per mafia.
Ma, oltre che per la sua decisione di candidarsi alle elezioni per diventare sindaco del suo paese, gli uomini d’onore lo avevano messo nel mirino: era insopportabile il fatto che avesse rifiutato più volte le pratiche per ottenere i contributi che alcuni di loro – ufficialmente agricoltori - avevano presentato al patronato da lui diretto. In tanti si erano infuriati e avevano chiesto al capo del mandamento, Nino Giuffrè - poi diventato collaboratore di giustizia - di intervenire ma lui si era rifiutato di compiere azioni eclatanti ed era stato scavalcato.
Sarebbero stati altri due componenti della famiglia mafiosa di Caccamo, Giorgio Liberto e Salvatore Puccio, a lamentarsi «posando» Giuffrè: erano andati direttamente da Bernardo Provenzano, che a Caccamo aveva una delle sue roccaforti, sostenendo che il sindacalista doveva essere fatto fuori perché stava facendo perdere molti soldi a Cosa nostra.
E «u Zu Binu», per uccidere Geraci, si sarebbe rivolto a Salvatore e Pietro Rinella che, all’epoca, erano al vertice della famiglia mafiosa di Trabia.
Pietro Rinella era stato scarcerato alla vigilia dell'udienza preliminare su decisione del tribunale del Riesame. La vicenda era stata analizzata dalla Corte di Cassazione, che aveva annullato una precedente ordinanza di detenzione, evidenziando che non era stata adeguatamente motivata la necessità di mantenerlo in carcere.
I giudici supremi avevano accertato che, prima di essere accusato dell'omicidio Geraci, Rinella si trovava in regime di semilibertà, rispettando tutte le regole e ottenendo diversi permessi premio senza mai tentare la fuga, nonostante la condanna all'ergastolo. Inoltre, non era stato dimostrato con chiarezza il presunto pericolo di fuga, su cui si fondava il nuovo ordine di custodia cautelare. Alla luce di queste osservazioni, il tribunale del Riesame aveva stabilito la scarcerazione ritenendo insussistenti le condizioni per una detenzione preventiva.
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