
La prima dose anche a dieci anni; ragazzini, forse ancora bambini, che affogano nel fiume della droga che scorre per le strade e lascia a bordo dei marciapiedi zombie disposti a tutto. Ed ecco finestrini in frantumi, parabrezza distrutti, rapine e furtarelli, spesso anche in casa, dove spesso i genitori sono vittime di maltrattamenti ed è proprio dai nuclei familiari «che fioccano le denunce», spiega Piergiorgio Morosini, presidente del tribunale, che ieri ospite di Giorgio Mannino nella trasmissione Nomi cose città di Tgs ha regalato uno scorcio della realtà - a dir poco drammatica - dal suo osservatorio privilegiato.
I giovanissimi sono schiavi, attirati dalla dipendenza iniziano loro stessi ad essere spacciatori, si prestano al ruolo per assicurarsi le dosi. «L’emergenza sociale è anche una emergenza giudiziaria - spiega Morosini - sono aumentati sensibilmente i reati legati allo spaccio e all’assunzione di sostanze, che portano poi a furti, rapine».
Il quadro peggiora se si pensa che «la risposta penale è inadeguata: durante le udienze di convalida degli arresti, che sono il pronto soccorso della giustizia penale, si nota che questi ragazzi sono disperati. Non sono criminali, sono vittime dei traffici e la loro domanda si traduce in attività illecite. Se pensiamo che questi problemi si risolvono con il carcere - prosegue il presidente del tribunale - siamo lontani dalla realtà. Fin dalle prime battute il giudice deve decidere come trattare i giovani, c'è bisogno di comunità terapeutiche che possano accogliere tutti ma non ci sono e quindi si danno arresti domiciliari, ma vuol dire non dare sostegno rispetto ai problemi da affrontare, sanitari e psicologici».
Spacciatori che sono gli stessi clienti e furti di quart’ordine, che lasciano dietro di sé solo danni: sembrerebbe la sceneggiatura della mafia stracciona, una figura ormai entrata, e fissa, nell’immaginario colllettivo. Invece, «Cosa nostra è tornata in grande stile nel mercato della droga - spiega Morosini - ha capito che non si può permettere di ignorare questa fetta di business e la ritroviamo nell’organizzazione capillare della piazza di spaccio e dei soggetti fiduciari cui affidare i compiti. È lei che autorizza l’acquisto e l’arrivo di determinate partite di sostanze stupefacenti. E le ultime operazioni attestano la gestione diffusa nei mandamenti, nel post covid hanno rafforzato il welfare mafioso, così da reclutare nuove giovani leve». Come fare allora? Se le risposte si cercano nella giustizia, si sbaglia strada, al netto degli arresti e delle operazioni per smantellare le piazze. Le istituzioni, adesso, cercano di concentrarsi sul «come» svuotarle le piazze, «lo strumento repressivo penale è inutile, ci vuole un cambio paradigma. Noi vediamo questi problemi come un pericolo per la nostra sicurezza fisica, di tanti cittadini che si possono trovare aggrediti. Dovremmo pensare di più ad un problema di sicurezza esistenziale, in questi ragazzi che arrivano alla tossicodipendenza. Una risposta credibile la si ottiene soltanto se c’è un patto tra le istituzioni e le associazioni di volontariato, che prendano in carico seriamente l’ultimo anello della catena».

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