Quasi vent’anni dopo, a Palermo, per la prima volta due operai hanno testimoniato e si sono costituiti parte civile, assieme al titolare dell’impresa per la quale lavorano ancora adesso. Due operai, due muratori contro gli esattori del pizzo che erano andati a «trovarli» in cantiere. Non certo per una visita di cortesia. Vent’anni dopo quella notte che cambiò la lotta al racket i due dipendenti dell’azienda edile hanno trovato il coraggio di denunciare e anche di prendere parte da protagonisti al processo. Perché da quando l’associazione Addiopizzo disseminò la città di pizzini, bigliettini anonimi che incitavano alla rivolta morale e materiale contro il racket, nella notte tra il 28 e il 29 giugno del 2004, è passato tanto tempo, le coscienze un po’ sono cambiate, il rifiuto dell’imposizione mafiosa si è fatto strada.
«Si sono avvicinati e ci hanno chiesto di parlare con il responsabile - raccontano oggi gli operai, che hanno chiesto di rimanere anonimi - ma siamo andati subito dai carabinieri. È una scelta che rifaremmo senza problemi. Abbiamo deciso di parlare per dare ai giovani un’immagine migliore della nostra categoria e per rendere orgogliosi i nostri figli». Una scelta, dunque: consapevole, partecipata, coerente. E Addiopizzo c’è, accompagna, assiste, incoraggia, sostiene anche con propri avvocati, senza spese per chi accetta di denunciare i boss.
Nel 2004 invece le denunce si contavano sulle dita di una mano, non si parlava di estorsioni e - al di là del prezioso lavoro di forze dell’ordine e magistrati - era davvero un caso rarissimo quando qualcuno si faceva avanti per accusare i mafiosi. Fu il destino a cambiare la situazione, nel momento in cui sette giovani decisero di aprire un pub in centro e scoprirono che tra i rischi d’impresa c’era anche l’eventualità di dover pagare una «tassa» a Cosa nostra. Un’amara realtà che, però, diede la spinta per creare il primo embrione di Addiopizzo. L’idea originaria era di farsi pubblicare una lettera sui quotidiani ma alla fine - in quella notte di esattamente venti anni fa - i fondatori decisero di mettere in atto un’altra provocazione che fece il botto: attaccare adesivi anonimi, senza nemmeno un numero di telefono, vicino ai negozi. La scritta era secca: «Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità». Slogan diventato ormai un vero e proprio marchio di fabbrica.
Solo due giorni dopo era uscita un’intervista anonima sul Giornale di Sicilia, nella quale gli autori dell’iniziativa spiegavano chi erano e quali fossero le loro motivazioni, fornendo l’indirizzo email per aderire alla lotta contro la piaga silenziosa che stava fiaccando la resistenza dei commercianti e l’economia legale della città. «Con quella frase, inventata da Vittorio Greco, non si fece altro che affermare tra le strade della città una verità - dice Raffaele Genova, oggi medico, all’epoca uno dei sette attacchini - e cioè che fino a quel momento era mancato nella lotta alle estorsioni il coinvolgimento degli operatori economici ma anche dei cittadini».
A trascinare erano stati anche l’ispirazione e il coraggio di Libero Grassi che, nel 1991, aveva pagato con la vita il suo rifiuto ad adeguarsi e un’eredità importante ha lasciato Pina Maisano Grassi, la vedova dell’imprenditore ucciso (a sua volta scomparsa nel 2016), che aveva continuato le battaglie del marito. Il movimento, nato dal basso, è cresciuto anno dopo anno: oggi sono 119 i processi a cui Addiopizzo ha preso parte assistendo le vittime e, nel frattempo, da indagini, intercettazioni e dichiarazioni di collaboratori di giustizia è emerso a più riprese che ormai gli uomini di Cosa nostra evitano di imporre le estorsioni a commercianti e imprenditori che fanno parte della rete dell’associazione. Ma, nonostante tutto, bisogna tenere ancora alta la guardia perché «c’è ancora chi paga le estorsioni e non denuncia perché - sostiene Daniele Marannano - il più delle volte non subisce ma ricerca la messa a posto in un contesto in cui il pizzo costituisce il prezzo che il commerciante o l’imprenditore corrisponde per avere in cambio spazi di mercato o più semplicemente servizi».
Nel 2016 era arrivata una sentenza senza precedenti con la condanna di alcuni criminali: per la prima volta il fenomeno della denuncia collettiva aveva visto in prima fila undici commercianti bengalesi di via Maqueda che, per anni, erano stati vessati con richieste di denaro, minacce, rapine, furti e aggressioni. «Quello che a distanza di vent’anni possiamo comunque affermare - sottolinea l’avvocato Salvo Caradonna - è che si è creata la possibilità di denunciare le estorsioni, grazie soprattutto al lavoro di forze dell’ordine e magistratura e al contributo di operatori economici, cittadini e realtà sociali concretamente impegnate sul territorio».
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