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«Lei non voleva, faceva "No, basta!"»: ecco le frasi che incastrano gli imputati dello stupro di gruppo di Palermo

Dal documento con le motivazioni del gup della condanna del ragazzo minorenne emergono molte ammissioni «involontarie», sotto forma di vanterie

Palermo.Violenza di gruppo,il cantiere abbandonato al Foro Italico dove si sarebbe consumato lo stupro..Ph.Alessandro Fucarini

Una serie di ammissioni «involontarie», sotto forma di vanterie vere e proprie, fatte dagli stessi protagonisti dello stupro di gruppo che il 7 luglio scorso vide vittima una ragazza allora di 19 anni, a Palermo. È partendo da questo che il giudice dell’udienza preliminare del tribunale dei minorenni del capoluogo siciliano, Maria Pino, ha motivato la propria severa condanna nei confronti dell’unico dei sette imputati che all’epoca dei fatti non aveva ancora compiuto i 18 anni, cosa che avvenne 20 giorni dopo l’aggressione, consumata in un cantiere abbandonato del Foro Italico.

Alla base della decisione, spiegata in 33 pagine depositate oggi, il gup Pino pone il compiacimento che lo stesso giovane (condannato a otto anni e otto mesi, quando il pm aveva chiesto otto anni) e i sei complici maggiorenni avevano espresso nell’immediatezza dei fatti, in conversazioni intercettate nella sala d’attesa della caserma dei carabinieri in cui erano stati convocati apposta, o recuperate dai loro cellulari e in particolare dalle conversazioni di WhatsApp. I sei che già avevano compiuto 18 anni, nel luglio scorso, rischiano ora pene pesantissime, perché hanno optato per il rito ordinario, che non dà diritto a sconti: l’ex minorenne ha invece fatto l’abbreviato, quindi ottenendo un terzo della pena in meno, e ha goduto anche del regime sanzionatorio meno grave, previsto per i minorenni.

Il gup osserva che proprio dalle parole dei maggiorenni viene fuori con chiarezza il dissenso della vittima, che aveva chiesto che i sette smettessero di abusare di lei. Nella sentenza il giudice Pino riporta alcune loro affermazioni, tratte dalle captazioni, devastanti ai fini processuali. Diceva ad esempio Samuele La Grassa: «Quello che la struppiò (le fece male, ndr) di più è stato Cristian (Barone, altro imputato, ndr)». Christian Maronia: «Il Trapani (Gabriele, altro imputato, ndr) se la (...), stava (...), lei non voleva, faceva "No, basta!"». E poi le violenze fisiche. Ancora La Grassa: «Ma no, oltre a questo, compà - diceva rivolto a un amico - i pugni, i pugni che le davano e pure gli schiaffi». Elio Arnao: «M..., non ansimava più, faceva "ahia, ahia", le faceva male...». E poi altre frasi irripetibili, concernenti dettagli dello stupro.

Dagli atti emerge il mancato pentimento dell’imputato minorenne all’epoca dei fatti. Nelle motivazioni della sentenza che lo ha condannato a otto anni e otto mesi, il Gup del tribunale dei minori del capoluogo siciliano, Maria Pino, riporta alcune frasi pronunciate in messaggi vocali mandati a un amico, poi recuperati dal suo cellulare: «Cumpà, l’ammazzammu (compare, l’abbiamo uccisa, ndr)! Ti giuru a me matri, l’ammazzammu (giuro su mia madre, l’abbiamo uccisa, ndr)! Ti giuro a me frati, svinìu (ti giuro su mio fratello, è svenuta, ndr), più di una volta». E all’interlocutore, che gli rimproverava di avere fatto una cosa sbagliata, lui rispondeva: «Ah ah ah ah, troppo forte, invece».

La ragazza e i complici, processati a parte dal tribunale ordinario, avevano attribuito all’allora minorenne un ruolo di particolare accanimento e cattiveria: lui stesso l'avrebbe colpita al seno con schiaffi, per svegliarla e per indurla a fare sesso anche con lui. E ancora, dagli interrogatori resi dall’imputato, osserva il giudice, emerge come egli «non abbia neppure avviato il processo di rivisitazione critica della propria condotta a cui, sin dal suo ingresso nell’istituto di pena minorile, l’équipe dedicata si era impegnata a orientarlo. A prescindere da una generica dichiarazione di pentimento - prosegue la motivazione della sentenza - invero non si registra alcun distanziamento dal fatto». Non solo: «L'unico giudizio di disvalore è espresso da lui nei confronti della ragazza, definita una "poco di buono"».

Da qui la severità della condanna, andata oltre la richiesta (otto anni) del pm: «Le modalità dell’asservimento conseguito in pregiudizio della giovane - scrive il giudice Pino - sono nettamente connotate da speciale efferatezza e denotano un assoluto difetto del più elementare senso di umanità. Sono state invero inflitte alla ragazza sofferenze con evidenza costituenti perfino un quid pluris rispetto all’attività necessaria ai fini della consumazione del reato e univocamente indicative di allarmante, non comune brutalità. La pena - conclude la motivazione della sentenza - va dunque determinata con speciale rigore e tenendo conto delle importanti esigenze rieducative del giovane, che certamente richiedono un percorso lungo e impegnativo».

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