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Strage Falcone, la memoria oltre la retorica e le polemiche

La difficile vita del magistrato antimafia e Cosa nostra che oggi gode di ottima salute

L’imprescindibile e improcrastinabile esigenza investigativa che aveva spinto la Procura di Firenze a fissare per oggi, 23 maggio, l’interrogatorio di un volto noto - suo malgrado - delle cronache giudiziarie degli ultimi venti, se non trent’anni, il generale Mario Mori, indagato per concorso nelle stragi di Roma, Firenze e Milano del 1993, sarà sicuramente spiegabile e spiegata con ragioni più che valide. Il procuratore del capoluogo toscano, Filippo Spiezia, ieri l’ha motivata con la necessità di «completare gli accertamenti di competenza del suo ufficio»; non ha detto perché questo completamento andasse fatto giusto nell’anniversario della prima delle stragi del biennio horribilis del ’92-’93, ma tant’è. Del resto l’interrogatorio non si farà, Mori (o il suo legale?) ha un impegno, anch’esso irrinunciabile, e non è voluto andare a farsi interrogare nel giorno di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.

A guardare forse in modo superficiale ma non del tutto peregrino, Falcone, anche da morto - e da morto di 32 anni fa - continua a essere tirato per la giacchetta. Piegato al volere dei suoi sedicenti epigoni da una parte, abbastanza spesso per ragioni politiche; eretto a scudo da chi è sempre pronto a dire che con Falcone vivo certa magistratura non si sarebbe mai avventurata in teoremi indimostrabili, dall’altra. E magari, nella foga del muro contro muro e del garantismo esasperato, un minimo peloso, ci si dimentica che il primo importante teorema giudiziario, che porta il nome di Tommaso Buscetta, fu ideato da «quel» giudice istruttore e dal pool antimafia di cui faceva parte, e servì - eccome - per i maxi e tanti altri processi di mafia. Con scorno dei garantisti dell’epoca. Tirare Falcone di qua e di là, nella giornata di oggi, può sortire anche effetti peggiori, quelli non tanto di dividersi a parole sulla lotta a Cosa nostra ma di arrivare alle vie di fatto, come in parte avvenne l’anno scorso, antimafia dura e pura da un lato, forze dell’ordine sul fronte opposto. Il senso di responsabilità degli organizzatori della «contromanifestazione» e dei tutori dell’ordine dovrà garantire che questo corteo «contro» non si risolva come o peggio del 2023, perché un esito anche minimamente violento farebbe indubbiamente una sola vittima: la memoria di Falcone.
L’idea di un unico filo che lega le stragi e le trame di ogni genere, da Portella della Ginestra a via Palestro, passando per Capaci e via D’Amelio, è suggestiva, se non proprio seducente. Viene battuta da giornalisti e scrittori, ma non di rado anche da magistrati o ex magistrati che hanno argomenti a iosa per spiegare ciò che non sono riusciti a dimostrare nella sede propria, quella delle aule dei tribunali, nonostante anni e anni di indagini, accertamenti, interrogatori, intercettazioni, sequestri, perquisizioni, ragionamenti, collegamenti, deduzioni che si scontrano sempre con quel dannatissimo ostacolo che si chiama prova e con l’altro, il superamento di ogni ragionevole dubbio, criteri non inventati dai nemici della giustizia ma elaborati dagli stessi giudici. Col risultato di far perdere di vista gli obiettivi principali della guerra contro Cosa nostra, una guerra interminabile in cui ci si schiera per fazioni e per partiti presi: basta vedere la frequente levata di scudi di centrosinistra a favore di (non tutti) i pm e il serrate le file del centrodestra a favore del generale Mori, a cui si somma adesso pure la pubblica solidarietà («Nel rispetto della magistratura», si intende) della stessa Arma dei carabinieri.

Insomma, le contraddizioni che sempre emergono quando si parla di giustizia si riflettono su quel che resta della lotta alla mafia, spesso trasformata in lotta all’antimafia. Gli epigoni di Falcone dovrebbero smettere i panni dei soldati giapponesi che negli anni ’70 furono trovati nelle isolette del Pacifico ancora pronti a combattere l’invasore americano. Che la mafia sia cambiata è frase fin troppo abusata per ripeterla ancora: eppure c’è chi non riesce a non vederla nei panni spavaldi e violenti di Scarpuzzedda, Madonia, Lucchiseddu e dei capi dei macellai, Riina, Provenzano, Bagarella, Brusca. L’organizzazione oggi è molto più sottile, non ha più la forza militare (e l’impunità) per colpire e massacrare, né gode dell’indiscriminato o passivo consenso sociale che ne tollerava le gesta. Cerca nuovi (vecchi) traffici, lucrosi come sempre: la droga, innanzitutto, e il confronto di tre giorni tra magistrati di tutto il mondo, in corso proprio a Palermo su questo tema, non può che richiamare l’attenzione di chi - chiamato a investigare oggi - non si fa soggiogare da temi da fiction sul Grande vecchio, il Burattinaio, il Colluso principe.

Il tema rimane quello dei soldi facili, non si diventa mafiosi per prestigio fine a se stesso ma per arricchire. Le cointeressenze con la politica ci sono e ci saranno sempre, ma non c’è più il Vito Ciancimino inserito nel cuore della pubblica amministrazione: serve corrompere, spendere, disporre di risorse pagando chi ha le chiavi dei forzieri. La vicenda Messina Denaro, la parabola finale del superlatitante della porta accanto (in senso letterale), riassume molti di questi concetti: violenza ridotta ai minimi termini eppure ricchezza esagerata, ostentata, potere in senso puro, consenso illimitato su determinati territori e complicità diffuse, fin troppo. Messina Denaro era l’ultimo stragista in circolazione. Nella sua vicenda, nella sua troppo breve carcerazione, nella sua trasformazione da corleonese puro a dandy col calice di vino in mano, nell’abbandono del modello della latitanza alla Provenzano, c’è in fondo l’immagine della nuova Cosa nostra. È da lì che si deve ripartire, per comprendere che la mafia non solo c’è ancora ma gode di ottima salute. Basta solo rendersene conto e continuare a combatterla. Nel nome di Falcone, Morvillo, di Paolo Borsellino e dei loro agenti di scorta.

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