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Stragi mafiose del '93, indagato Mario Mori

A renderlo noto è lo stesso generale che ha ricevuto, nel giorno del suo ottantacinquesimo compleanno, un avviso di garanzia con invito a comparire

Il Generale Mario Mori dopo la sentenza in Corte di Cassazione sulla trattativa Stato Mafia, Roma, 27 aprile 2023. ANSA/FABIO CIMAGLIA

Il prefetto Mario Mori, ex generale dell’Arma dei carabinieri e capo del Servizio segreto civile, in una lunga nota comunica di avere ricevuto «nel giorno del mio 85esimo compleanno», dalla procura della Repubblica di Firenze, un avviso di garanzia con invito a comparire per essere interrogato in qualità di indagato per i reati di strage, associazione mafiosa e associazione con finalità di terrorismo internazionale ed eversione dell’ordine democratico, per gli attentati di Firenze, Milano e Roma del 1993.

«Si tratta, com'è agevole a tutti comprendere - afferma - di accuse surreali e risibili se tutto ciò non fosse finalizzato alla gogna morale che sarò costretto a subire ancora per chissà quanti anni. Basti pensare alla circostanza che, a Palermo, mi hanno processato per 11 anni, con l’accusa di aver trattato con la mafia e siglato un accordo con Bernardo Provenzano per far cessare le stragi. La sentenza di condanna, in primo grado a 12 anni, poi spazzata via da quella di appello e di Cassazione, affermava che avrei "esortato" e, quindi, sollecitato i vertici mafiosi a comunicare le condizioni per ritornare alla situazione di pacifica convivenza che si era protratta sino alla conferma delle condanne all’esito del maxi processo, e, dunque, per non commettere più stragi».

«La sentenza di appello - continua Mori -, nell’assolvermi, ha riconosciuto che la mia condotta "ebbe come finalità precipua ed anzi esclusiva quella di scongiurare il rischio di nuove stragi" e che avevo "effettivamente come obbiettivo quello di porre un argine all’escalation in atto della violenza mafiosa che rendeva più che concreto e attuale il pericolo di nuove stragi e attentati, con il conseguente corredo di danni in termini di distruzioni, sovvertimento dell’ordine e della sicurezza pubblica e soprattutto vite umane"». E ancora: «Per i giudici di Palermo - fa notare il generale - fui mosso esclusivamente da fini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale, e fondamentale, dello Stato.  Oggi vengo indagato per non aver impedito le stragi, quindi con una virata di 360 gradi rispetto al precedente teorema».

Secondo la contestazione dei magistrati, «pur avendone l’obbligo giuridico, non impediva, mediante doverose segnalazioni e/o denunce all’autorità giudiziaria, ovvero con l’adozione di autonome iniziative investigative e/o preventive, gli eventi stragisti di cui aveva avuto plurime anticipazioni», poi verificatisi a Firenze, Roma e Milano, nonché il fallito attentato allo stadio Olimpico «sebbene fosse stato informato, dapprima nell’agosto 1992, dal maresciallo Roberto Tempesta, del proposito di cosa nostra, veicolatogli dalla fonte Paolo Bellini, di attentare al patrimonio storico, artistico e monumentale della Nazione e, in particolare, alla torre di Pisa» e, qualche tempo dopo, anche dal pentito Angelo Siino «durante il colloquio investigativo intercorso a Carinola il 25 giugno 1993, il quale gli aveva espressamente comunicato che vi sarebbero stati attentati al Nord».

 

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