C’è una legge nazionale che potrebbe essere utilizzata per dare un lavoro agli orfani o ai familiari più stretti dei cinque operai che hanno perso la vita nel dramma di Casteldaccia. E per la Sicilia non sarebbe una prima assoluta, visto che era già stata applicata ben 16 anni fa con un intervento ad hoc della Regione per venire incontro alle esigenze dei parenti di un’altra strage sul lavoro – praticamente una disgrazia fotocopia di quella di quattro giorni fa – che si era verificata nell’impianto comunale per la gestione e la depurazione dei reflui urbani di Mineo, in provincia di Catania, dove erano morte sei persone. La norma concede la possibilità di assumere il figlio o il coniuge superstite equiparando di fatto la situazione di chi ha patito un infortunio letale sul lavoro a quella delle vittime di mafia o di terrorismo. Un mese fa il giudice ha imposto all’Asp di Ragusa di immettere in servizio per chiamata diretta il figlio di un uomo scomparso in seguito a un incidente sul lavoro mentre all’epoca era era stata l’allora Asl 7, sempre di Ragusa, a dare il via all’iter che si concluse con l’immissione in servizio della vedova e della figlia di due operai che erano deceduti mentre pulivano la vasca del depuratore, proprio a Mineo. «Si può fare, allora ci riuscimmo con la collaborazione di tutti», spiega Fulvio Manno, ora in pensione, che al tempo della tragedia era direttore generale dell’Azienda sanitaria iblea. Il provvedimento si concretizzò anche per il fatto che erano disponibili i posti vacanti in pianta organica, riservati alle categorie protette e non c’erano limitazioni imposte dal piano di rientro per la sanità. L’Assemblea regionale aveva previsto una copertura finanziaria di 420 mila euro per sostenere gli studi dei ragazzi dei sei operai e per le assunzioni nella pubblica amministrazione: «Ma la burocrazia non avrebbe potuto fermarci - ricorda ancora Manno - perché venne messa al primo posto la sensibilità di essere vicini ai cittadini e a quelle famiglie che avevano sofferto una gravissima perdita. Questa facoltà era prevista dalla legge e l’Asl era riuscita a operare in questo senso deliberando subito di offrire il contratto a tempo indeterminato». L’11 giugno del 2008 due squadre di lavoratori, due addetti della ditta privata di servizi ecologici di Ragusa, e quattro dipendenti pubblici, fecero una fine tremenda: i loro corpi vennero trovati nel pozzetto di ricircolo dei fanghi, che si era riempito di gas tossici. Salvatore Tumino e il coetaneo Giuseppe Smecca, dipendenti di un’azienda esterna, furono i primi a perdere la vita, avvelenati dall’acido solfidrico, lo stesso idrogeno solforato che ha ucciso i cinque operai di Casteldaccia. Non sopravvissero nemmeno Giuseppe Zaccaria, Giovanni Natale Sofia, Giuseppe Palermo e Salvatore Pulici, gli operatori comunali scesi in aiuto dei colleghi, mentre il locale si trasformava in una trappola. Quando li recuperarono erano uno sopra l’altro, come se ognuno di loro avesse cercato di salvare l’amico senza farcela. Una scena, purtroppo, che si è ripetuta anche a Casteldaccia, così come – oggi allo stesso modo di allora – mancavano del tutto le misure di sicurezza: non erano stati formati per le attività da svolgere quel giorno, non avevano maschere, né autorespiratori, non indossavano imbracature collegate a cavi, per consentire il recupero in caso di malori e mancava la segnaletica sulle precauzioni da prendere. A rilanciare l’idea di una legge è anche il deputato regionale Rosellina Marchetta: «La tragedia che ha visto morire cinque operai a Casteldaccia potrebbe aprire le porte a una nuova normativa che estende la possibilità delle assunzioni dirette nei diversi comparti dell’amministrazione regionale o negli enti pubblici da parte dei familiari che hanno avuto il coniuge o un genitore vittima del lavoro». Ma la legge forse c’è già. Nella foto le difficili operazioni di recupero dei cadaveri morti a Mineo nel 2008