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La tragedia di Casteldaccia, l'esperto: «In quelle fosse c’è sempre gas letale, c’è stata una sottovalutazione dei rischi»

Andrea Pace, ordinario di Chimica all’università di Palermo: «C’era una altissima percentuale di acido solfidrico. È un fenomeno molto comune nelle cisterne»

«L’unica cosa da fare quando ci si avvicina a una fossa come quella in cui sono morti i cinque operai è dare per scontato che ci sia un potenziale rischio di esposizione a gas tossici. Queste tragedie possono nascere anche dalla sottovalutazione del rischio potenziale, che porta a considerare come evitabile l’azione più ovvia cioè indossare le maschere di protezione»: Andrea Pace, ordinario di Chimica all’Università di Palermo, prova a immaginare la catena di errori che potrebbero aver determinato la tragedia di Casteldaccia. E avverte sui rischi che in situazioni analoghe possono essere sottovalutati.

Professore, che idea di si è fatto a 24 ore dalla tragedia?

«Sicuramente in quella vasca di raccolta di reflui c’era una altissima percentuale di gas tossico, probabilmente acido solfidrico. È un fenomeno molto comune in cisterne o sotterranei quando lì si depositano e stagnano grandi quantità di materiale organico come alghe, residui agricoli o acque reflue. In questi casi la decomposizione produce l’acido solfidrico, che è molto volatile. Di solito lo si riconosce perché produce un cattivo odore simile a quello dell’uovo marcio. Ma quando ce n’è una altissima concentrazione nell’aria, non si percepisce. Questo impedisce ai nostri sensi di dare l’allarme, percepire quindi il pericolo, e fuggire».

E come ci si protegge da questi gas?

«Qualsiasi operaio lavori in questi ambienti dovrebbe farlo con delle maschere. Ovviamente non parliamo di mascherine come quelle che usavamo ai tempi del Covid ma di maschere simili a quelle antigas che si vedono nei film. Sono dispositivi che hanno filtri specifici per questo tipo di gas. L’alternativa sarebbero i respiratori collegati a bombole di ossigeno o di aria, come per i sub, ma con problemi poi di mobilità in ambienti ristretti. Una soluzione certamente meno praticabile sarebbe quella di utilizzare sistemi di aspirazione forzata dell’aria di questi ambienti, anche perché si rilascerebbero all’esterno gli stessi gas nocivi».

E utilizzare dei rilevatori di gas prima di calarsi può essere una misura preventiva?

«Dipende da quanto siano portatili o disponibili in loco. Un’analisi preventiva dell’aria, tra l’altro non metterebbe al riparo da eventi improvvisi come lo sprigionarsi di gas a seguito di interventi con acidi. Io resto dell’opinione che l’unica cosa saggia non è sapere se c’è gas tossico o meno ma dare per scontato che ci possa essere e comportarsi di conseguenza».

Al di là dell’eventuale imprudenza, è possibile che gli operai non si siano accorti del pericolo? Uno dei superstiti dice che nelle prime ore di lavoro sul posto non c’era nulla di strano e poi qualcosa è successa all’improvviso.

«A contatto con le mucose questo gas provoca bruciore agli occhi e poi irrita i polmoni ed entrando in circolo col sangue diventa letale. Quanto tempo sia passato prima che perdessero i sensi dipende da tanti fattori, la concentrazione di gas nell’aria e la resistenza fisica di ciascuno. Ma il punto resta lo stesso. Se si pensa, per negligenza o meno, di non essere in pericolo ci si mette a rischio inevitabilmente. A quel punto diventa impossibile anche tornare alla scaletta e fuggire. È una situazione analoga all’avvelenamento da monossido di carbonio ad esempio con stufe catalitiche malfunzionanti. Se e quando si avvertono i sintomi è già tardi per intervenire».

È possibile che invece dell’acido solfidrico ci sia stato qualche altro gas? Magari provocato da altri elementi che si sono mischiati nelle fognature, visto che in quella zona ci sono altre imprese con lavorazioni industriali.

«In teoria è possibile. Non si può escludere a priori che dei reflui industriali si siano mescolati ai liquami e, in caso di alto contenuto di composti solforati (che contengono zolfo, ndr) possano avere favorito lo sprigionarsi di alte concentrazioni di acido solfidrico o anche anidride solforosa. Immagino che questo potrà essere stabilito dalle analisi dei liquami presenti, io non posso spingermi oltre la teoria».

È possibile anche che al momento in cui gli operai si sono calati nella vasca non ci fosse gas e che si sia manifestato durante il lavoro?

«Anche questo in teoria è possibile. Magari all’inizio del turno di lavoro c’era una temporanea assenza di gas tossico e poi alcune operazioni (come rimuovere qualcosa che ostruiva un tubo) hanno liberato il gas. È la tipica situazione in cui all’inizio si sottovaluta il pericolo. Ma il pericolo c’è sempre, ecco perché bisogna usare la mascherina anche se scomoda e ostacola un po’ la vista o le attività».

E chi è sul posto come deve soccorrere? Pare che gli altri operai siano morti nel tentativo di dare aiuto.

«Un lodevole tentativo che però non tiene conto anche qui della priorità che gli stessi soccorritori devono lavorare in sicurezza. Vale quello che, ad esempio, ci spiegano quando siamo a bordo degli aerei ossia di indossare la mascherina per l’ossigeno prima di aiutare gli altri passeggeri ad indossarla. E, comunque, prima di calarsi nella vasca va lanciato l’allarme con la richiesta di aiuto».

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