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Palermo, un paio di ceffoni e il pusher «salvò» il nipote dal pestaggio

Il blitz allo Sperone: a ordinare una punizione più severa era stato Alessio Caruso, ferito nella sparatoria in cui ha perso la vita Romano

La punizione per lo «sgarro» doveva essere plateale e addirittura pesantissima, forse troppo per lo sbaglio che aveva commesso. Anche se il responsabile aveva fatto l’errore di negare tutto fino a quando era stato scoperto. Per questo, a difesa di un ragazzino di 17 anni, era intervenuto lo zio: sarebbe stato lui, davanti a tutti, a castigarlo a patto che nessun altro lo toccasse. Era colpevole di avere realizzato un furto in un appartamento senza la preventiva autorizzazione dei più alti in grado all’interno del clan di Brancaccio, ma i più anziani non avevano gradito la bugia: gli avevano chiesto se era entrato in quella casa e lui li aveva presi in giro, dicendo che non era vero niente. Quindi, non appena smascherato, la decisione era stata di fargliela pagare.

A chiedere di intervenire contro il minorenne era stato Alessio Salvo Caruso, attualmente ricoverato in gravi condizioni all’ospedale Buccheri La Ferla dopo essere stato ferito nella sparatoria che è costata la vita a Giancarlo Romano, ritenuto dagli investigatori l’astro nascente della mafia di corso dei Mille. E proprio al boss si era rivolto il suo braccio destro per dirimere la questione, un fatto di principio più che di sostanza, ma che doveva servire per dare l’esempio a chi non si assoggettava alle regole dell’organizzazione criminale.

(Nella foto di Alessandro Fucarini le auto della polizia durante il blitz a Brancaccio)

Un servizio completo di Fabio Geraci sull'edizione di Palermo del Giornale di Sicilia in edicola oggi

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