Tre mesi di fuoco e di conflitti criminali risolti a colpi di pistola in una città attraversata dal centro alle periferie da un’escalation di violenza che non sembra promettere nulla di buono. Le fibrillazioni nei clan di diversi quartieri e le scorribande degli uomini dal grilletto facile preoccupano non poco gli inquirenti e gli ultimi sanguinosi episodi - dalla sparatoria della notte del 10 dicembre in via La Lumia sino agli omicidi di Lino Celesia, due settimane dopo davanti a una discoteca di via Calvi, e di Giancarlo Romano, freddato allo Sperone il 26 febbraio - sono confluiti nell’ordinanza di custodia cautelare sfociata due giorni fa nel blitz contro il mandamento di Brancaccio. La cosca diretta da Giuseppe Arduino può vantare una grande disponibilità di armi, alle quali adesso gli investigatori della squadra mobile danno la caccia. Nelle intercettazioni dell’inchiesta coordinata dalla Dda si parla a chiare lettere di revolver e munizioni ma si fa riferimento anche alla possibilità di azioni eclatanti e omicidi. Giancarlo Romano e Giuseppe Chiarello, uno degli arrestati, che si sarebbe occupato anche della modifica di pistole giocattolo, per renderle offensive, in un colloquio ricostruiscono la notte in via La Lumia e dicono di temere per l’incolumità di Marco Cucina, trentenne dello Sperone fermato con l’accusa di avere sparato tra i locali notturni del centro al culmine di una lite. I due fanno riferimento a dissidi con esponenti della criminalità della Zisa e più in particolare i figli di Salvatore Fernandez, l’autore reo confesso dell’omicidio di Giuseppe Incontrera, discutono di un tentativo di pacificazione non andato a buon fine. Quella notte di follia in via La Lumia viene registrate anche dalle microspie piazzate dagli investigatori per seguire alcuni indagati del mandamento di Brancaccio. Giuseppe Chiarello entra in contatto con i ragazzi dello Sperone e apprende in diretta del fattaccio. Poco dopo scenderà in strada, in piazzale Ignazio Calone, a provare una pistola: esploderà tre colpi, così come captato dalle cimici. Chiarello, parlando con Giancarlo Romano, racconta della disponibilità di diverse armi, revolver e semiautomatiche. Tra l’altro, verrà intercettato e ripreso dagli inquirenti mentre nasconde in una zona di campagna una pistola e droga, roba poi recuperata dalle forze dell’ordine. Uno dei giovani coinvolto nei fatti di via La Lumia dirà a un amico che della vicenda si occuperanno «i grandi». E parlando tra loro, Romano e Chiarello si soffermeranno sulla vicenda dicendo di dovere fare visita agli esponenti della Zisa nel tentativo di dirimere la questione. Sulla scena della sparatoria di via La Lumia compare anche un parente di Alessio Salvo Caruso, fedelissimo di Romano rimasto ferito in modo grave il 26 febbraio allo Sperone. È ancora ricoverato in prognosi riservata. Caruso, pregiudicato per estorsione, è stato raggiunto dall’ordinanza di custodia cautelare contro i rappresentanti del mandamento di Brancaccio. Si tratta, secondo l’accusa, di un personaggio molto attivo sul fronte criminale, che si sarebbe occupato principalmente di intimidazioni e richieste di estorsioni con metodi violenti. Il gruppo criminale appare piuttosto agguerrito e pronto a farsi largo anche con le maniere forti. La morte di Giancarlo Romano, per il quale sono stati arrestati Camillo e Antonio Mira, padre e figlio, che hanno detto di avere sparato per salvarsi la vita, ha accelerato le indagini e fatto scattare il blitz in fretta e furia. Il gip Lirio Conti, che ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare, afferma senza mezzi termini dell’esistenza del pericolo di ulteriori episodi violenti in seguito alla sparatoria di via XXVII Maggio: «C’è il concreto pericolo di gravi delitti di criminalità organizzata con l’uso di armi o con altri mezzi di violenza». L’omicidio di Romano, avvenuto in un contesto mafioso legato anche alla riscossione delle estorsioni e ai proventi del gioco d’azzardo (i Mira gestiscono centri scommesse), potrebbe alimentare propositi di vendetta. L’uomo, che avrebbe dovuto essere arrestato nell’operazione di domenica, era considerato il reggente della famiglia di corso dei Mille. Pensava in grande, di occuparsi di scaricare intere navi cariche di stupefacenti. Ma era consapevole dello scarso livello criminale della realtà in cui viveva: «Livello basso, misero, non solo all’interno di Cosa nostra. A Palermo siamo a terra, siamo in ginocchio, siamo gli ultimi, siamo zingari», con gente che ancora «discute per una panetta di fumo», che «rischia 30 anni di carcere per 10 mila euro», mentre c’è chi fa gli affari seri, muove «300 milioni e rischia 3 anni». Secondo Romano, il suo gruppo deve occuparsi di affari seri e importanti: «Se tu mi parli di rapine mi devi parlare di rapine serie, di rapine dov’è il caso possiamo rischiare anche la vita -, diceva ad Alessio Salvo Caruso, rimasto ferito nella sparatoria del 26 febbraio e ancora ricoverato in gravi condizioni -. Io spero nel futuro, in tutta Palermo, da noi, spero nel futuro di chi sarà il più giovane, ti devi fare il cervello tanto, certe cose vanno abolite, certe cose vanno tolte».