Un omicidio dimenticato, una probabile lupara bianca che si chiude dopo 33 anni senza un colpevole e con la dichiarazione di morte presunta da parte del Tribunale di Palermo per Francesco Paolo Garofalo, da tutti chiamato solo Paolo, contrabbandiere di sigarette e trafficante di droga sparito il 15 ottobre del 1990 dopo essere uscito da casa.
Il procedimento, avviato dalla figlia Angela Rita - assistita dall’avvocato Giuseppe Di Stefano - si è ora definitivamente concluso dopo la notifica del ricorso alla moglie Giuseppa Sciortino e agli altri due figli dello scomparso, Giovanni e Pietro Paolo, il primo aveva seguito le orme del padre per poi diventare collaboratore di giustizia, mentre l’altro è stato recentemente condannato a 12 anni di carcere nell’ambito di un’inchiesta per mafia e pizzo imposto nelle strade di Brancaccio.
Una decina d’anni fa era stato proprio Giovanni Garofalo, detto «Culo di paglia», pentito dalla seconda metà degli anni ’90 e figlio della vittima, a ottenere la riapertura del caso, una mossa che però non approdò a nulla. Lui stesso aveva rischiato la vita e si era salvato per non essere andato con il padre all’appuntamento con i suoi assassini. All’epoca la vicenda era stata ricostruita grazie al contributo di un gruppo di collaboranti, dallo stesso Garofalo a Giovanni Drago, ai fratelli Pasquale ed Emanuele Di Filippo, che avevano offerto versioni solo in parte coincidenti fra loro e con qualche contraddizione.
Secondo loro, Paolo Garofalo sarebbe stato assassinato per una rivalità con i boss di corso dei Mille, nell’attività di commercio dei «tabacchi lavorati esteri» e con un pretesto: quello di avere accusato un boss di rango - Paolo Alfano, ergastolano, detto Pietru u’ Zappuni per via dei suoi incisivi pronunciati - di avere avuto un ruolo da palo in un furto in appartamento.
Appena 24 ore prima della scomparsa c’era stato un incontro al quale aveva partecipato Giuseppe Spadaro: «Il giorno successivo mio padre uscì di casa, come ogni mattina, e non fece più ritorno», aveva raccontato il figlio Giovanni agli inquirenti aggiungendo che Alfano si sarebbe vantato con i Di Filippo della lupara bianca per «averla fatta pagare a mio padre» in seguito alla «diffamazione» collegata all’accusa di avere preso parte a un furto. Ma il vero motivo dell’esecuzione, al di là dell’accusa «infamante», sarebbe stata la condivisione tra «Zappuni» e Francesco Tagliavia della volontà di eliminare Garofalo senior. Questo perché il capocosca di corso dei Mille «vedeva in Paolo Garofalo un fastidioso concorrente nel contrabbando di sigarette, proprio perché quest’ultimo, per le sue conoscenze, riusciva a comprare e a rivendere i tabacchi esteri a prezzi inferiori». Accuse quelle contro Alfano mai provate. Per questo motivo il processo si era concluso con un’assoluzione, così come viene sottolineato anche nella dichiarazione di morta presunta.
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