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Mafia di Palermo, blitz a San Lorenzo-Tommaso Natale: il boss Micalizzi non se n’è mai andato

Colpito il clan del genero di Saro Riccobono: tornato dopo essere stato liberato, aveva sempre conservato i rapporti con i gregari. In carcere anche il figlio

Michele Micalizzi

La scarcerazione dopo 25 anni a seguito di una condanna per mafia, il ritorno al vertice della cosca di Tommaso Natale nella parentesi da uomo libero: Michele Micalizzi, 73 anni, ha avuto pazienza, ma non ha potuto fare a meno di tornare alla guida del clan mafioso di Tommaso Natale. Traffico di droga, decine di estorsioni, minacce, l’imposizione di servizi di vigilanza e delle forniture di pesce e frutti di mare a molti ristoratori di Mondello e della borgata di Sferracavallo finiti sotto il suo dominio. E persino il disegno per ottenere fondi europei per progetti legati all’agricoltura, le accuse contestate a Micalizzi e ai suoi adepti. Uno dei quali, Rosario Gennaro, sarebbe diventato il suo braccio destro.

Un nuovo colpo investigativo firmato dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo, e dai carabinieri del Nucleo investigativo del reparto operativo del comando provinciale, arriva dopo l’ennesima ordinanza di custodia cautelare: in otto finiscono - o tornano - in carcere, in 3 vanno agli arresti domiciliari con applicazione del braccialetto elettronico.

L’ordine di custodia in carcere - dove gli è stato notificato - riguarda Micalizzi; ma ci sono anche il figlio Giuseppe, 42 anni (accusato di aver minacciato di morte e picchiato, con un affiliato al clan, un uomo che aveva rubato un’auto senza autorizzazione dei boss); Gianluca Spanu, 35 anni; Domenico Caviglia, 47 anni; Amedeo Romeo, 47 anni; Rosario Gennaro, 57 anni, indicato dalle nuove acquisizioni come l’uomo di fiducia del capo; Matteo Pandolfo, 47 anni, bloccato a Belluno dove fa il muratore, indicato come esattore del pizzo, ruolo poi ceduto ad altri; Carmelo Cusimano, 48 anni (gli viene contestato il tentato omicidio del fratello Anello Emanuele, che si è salvato perché si è spezzata la lama del coltello, entrambi fratelli di Giuseppe, indicato come reggente con Francesco L’Abbate del clan dello Zen). Ai domiciliari vanno Giuseppe Giuda, 49 anni; Francesco Nappa, 37 anni; Vincenzo Garofalo, 37 anni.

L’indagine ha messo sotto osservazione - per molti versi in parallelo all’indagine sul clan di Resuttana di Squadra mobile e Sco rivelata lunedì - le attività criminali delle famiglie mafiose di Partanna Mondello, Tommaso Natale e Zen-Pallavicino. Ci sono personaggi in posizione di vertice, e già condannati in via definitiva per mafia, e i nuovi adepti pronti a mettersi «a disposizione» dei capi.

Micalizzi, nel frattempo tornato in cella, è una vecchia gloria del panorama mafioso: fa parte della generazione di boss di livello, genero del potente capo mandamento Rosario Riccobono: è amico di Tommaso Inzerillo - nel 2017 tra gli «scappati» in Usa dalla città per farla franca durante la guerra di mafia- con il quale parlava «degli americani», i boss palermitani espatriati a New York che continuavano ad essere un modello per chi era rimasto in città: «Gli Americani sono sofisticati...» il suo mantra. E soprattutto, dialogava e faceva affari con Salvatore «Salvo» Genova, il capo del mandamento di Resuttana, finito in carcere lunedì.

Su Micalizzi, condannato in Cassazione per associazione mafiosa, per l'omicidio dell'agente Gaetano Cappiello (2 luglio 1975), per tentato omicidio, traffico di stupefacenti e moltissimi altri gravi delitti, hanno raccontato particolari determinanti per le condanne, collaboratori di giustizia del calibro di Gaspare Mutolo, Calogero Ganci, Francesco Marino Mannoia, Giuseppe Marchese. La storia criminale di Micalizzi ha anche il capitolo di un maxi-traffico di eroina thailandese curato con il fornitore asiatico Koh Bak Kin. E tutto il pedigree di Micalizzi supporta le ultime e aggiornate accuse e conferma un dato storico, che il giudice per le indagini preliminari Fabio Pilato annota nella sua ordinanza: «L'ormai notoria regola del sodalizio mafioso - della cui perdurante operatività non è in alcun modo consentito dubitare, costituendone, anzi, il presente procedimento, come ampiamente si vedrà, l'ennesima dimostrazione - secondo la quale il vincolo di un associato con Cosa nostra, ed ancor di più il perdurante legame per diversi decenni, può essere interrotto soltanto dalla morte o dalla collaborazione con l'Autorità giudiziaria».

Tra le pagine dell’inchiesta emerge come Pandolfo e Gennaro gestivano in tandem l’imposizione delle forniture ad una decina di ristoratori tra Sferracavallo e Mondello. Pesce e frutti di mare la loro specialità. Gennaro lo spiega, senza sapere di essere intercettato: «Vedi che per ora il guardiano sono io qua… mi ha mandato pure il messaggio che ci sei scritto pure tu… se a me Amedeo mi dice di andare…”». Ma i ristoratori, in qualche caso, chiedevano loro di essere protetti dai boss: eventuali concorrenti che volevano aprire locali venivano dissuasi, ottenevano tranquillità in caso di clienti particolarmente fastidiosi, si premunivano dal rischio di subire rapine o furti: «Gentilmente a che sei qua, se puoi passare di là e dargli un’occhiata» la richiesta a Gennaro che ad un’amica rivelava: «Gli ho detto sì, “certo che lo posso fare, 150 euro per come pagano gli altri paghi tu”.» E c’è pure quella che il gip Pilato definisce «una plateale dimostrazione del potere criminale di Micalizzi»: il boss reagisce alla rapina subita dalla moglie, Margherita Riccobono, la figlia di don Saro, e ordina un pestaggio nei confronti degli autori dell’oltraggio.

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