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Palermo, l'inchiesta antidroga: quella canzonetta intonata con il pusher nella cucina del ristorante

Nel noto locale c'era anche qualche preoccupazione fra i dipendenti. In un dialogo intercettato due impiegati stranieri parlavano del rischio derivante dalla presenza di cocaina

L'ingresso da via Gioacchino Di Marzo

Il pusher che fa capolino tra i fornelli attira battute ma semina anche qualche timore. Nel periodo di permanenza all'interno della struttura, gli strumenti di intercettazione posizionati dalla polizia giudiziaria nelle cucine del ristorante di Villa Zito, a Palermo, consentivano di registrare una conversazione tra i dipendenti dopo l’arrivo di Gioacchino Salamone. Una visita che non appare inusuale, anzi: c’è una certa familiarità che tutti hanno con il pusher, al punto da spingere una dipendente ad esclamare, come fosse un segnale convenzionale ben conosciuto a tutti: «Ehi Mario... pusher».

Oltre a ironizzare sul fatto che questi fosse lo spacciatore di cocaina atteso, intonando un motivetto famoso con parole ritoccate all’uopo: «E sale .... sale e salirà questa coca che porta... e quando sale salirà». E l’altro dipendente, quello poi indagato perché coinvolto nel giro di cessioni, gli fa il verso: «L'uccello dentro la gabbia o canta per stizza o canta per raggia...».

Un clima di leggerezza che però non tutti condividevano. A febbraio scorso, verso le due di notte, in un dialogo intercettato dagli investigatori due impiegati stranieri parlavano del rischio derivante dalla presenza di cocaina in quel posto e si mostravano critici nei confronti dello chef: soprattutto nella loro condizione di lavoratori extracomunitari, gli avrebbe fatto passare veri e proprio guai: «Io qualche volta mi arrabbio per come si comporta, se qualcuno viene a me mi fa male!!!».

In effetti, Mario Di Ferro era abbastanza nervoso, ma cosciente del suo operato. Che giustificava anche dopo l’arresto del 4 aprile scorso con un amico al telefono, rimasto sotto controllo, ammettendo di «avere fatto una cazzata e che non era la prima volta». Il pentimento no era arrivato neppure davanti alle bacchettate e al rimprovero amaro del figlio al quale certe cose «facevano schifo, ti senti furbo ma neanche un mongoloide...». Lo chef continuava a sostenere «l'ingenuità e la tenuità» degli illeciti a lui contestati: «Che vuoi? Alla fine, guarda, ti giuro è una minchiata, infatti il giudice mi ha liberato subito... È stata una cosa fatta ingenuamente. Ho fatto un favore e si montò una tragedia».

«Ne consegue un giudizio estremamente negativo sulla personalità del Di Ferro - scrive nell’ordinanza il gip Antonella Consiglio - che, se da un lato sminuisce, al telefono, il disvalore delle sue condotte, dall'altro, sembra esserne orgoglioso. Egli, senza mostrare alcuna resipiscenza, manifesta comunque una visione ottimistica delle sue prospettive processuali». Un ottimismo contagioso, quello dello chef che in pochi anni ha occupato un ruolo di primo piano nella ristorazione cittadina. Da 20 anni è cuoco della Chiesa Cattolica Romana, ha cucinato per due papi, Francesco e Benedetto XVI, per l’allora segretario generale delle Nazioni unite Kofi Annan e per Hillary Clinton. Ha preparato piatti per la comunità di Sant’Egidio e per gala natalizi per le tv nazionali. Un professionista di successo e il suo locale è sempre frequentato da professionisti, burocrati e politici.

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