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Studentessa palermitana condannata per aver violato i decreti anti Covid

Foto d'archivio

Una studentessa palermitana, Ludovica Di Prima, è stata condannata quale «promotrice della manifestazione studentesca del 4 febbraio dello scorso anno, organizzata dal coordinamento Studenti Palermitani per protestare contro l’alternanza scuola-lavoro che nelle settimane prima aveva portato alla morte di due ragazzi durante degli stage». L’imputata è stata condannata alla pena base di 110 euro e 5 giorni di arresto, convertita in una multa complessiva di 660 euro per «aver violato i decreti anti Covid, che autorizzavano solo presidi statici, e aver istigato i manifestanti a procedere in corteo da piazza Politeama a piazza Verdi». La notizia è stata data in una conferenza stampa nel Laboratorio Sociale Malaspina.

«La responsabilità penale di una libera scelta di espressione del dissenso, condivisa da tutta la piazza, ricade secondo la Questura unicamente su una singola persona - ha detto la studentessa - Il divieto, arrivato la sera prima della manifestazione, veniva giustificato coi famosi decreti anti Covid e dunque con la scusa della diffusione del contagio, anche se ormai da tempo non vi erano più restrizioni in molti ambiti della vita pubblica».

La studentessa è stata condannata direttamente attraverso un decreto penale di condanna, senza passare da un normale processo penale e quindi senza possibilità di difendersi. L’unica strada, che sembra quella scelta dall’avvocato difensore, è fare opposizione al decreto.

«Quel giorno - continua Di Prima - centinaia di studenti decisero che non era giusto quel decreto anti Covid, che prevedeva restrizioni ormai quasi esclusivamente per le manifestazioni politiche, e si sono mossi in corteo, non potendo contenerla la rabbia per la morta di un coetaneo. Ridurre una scelta collettiva alla volontà di una singola persona, che secondo la questura ha istigato i manifestanti, è un processo repressivo molto comune e preoccupante. A un anno da quelle manifestazioni in cui migliaia di giovani in tutta Italia mettevano in discussione un modello di scuola che manda gli studenti a morire in posti di lavoro insicuri, le rivendicazioni sono rimaste inascoltate e l’unica risposta è stata la repressione. La libertà di dissenso in uno Stato che si finge democratico è, dunque, garantita solo se compatibile con le scelte politiche dei governi e solo se si esprime nelle forme imposte dalla Questura», conclude.

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