Morire a 35 anni per una diagnosi sbagliata e per un esame istologico che non rilevò tempestivamente un tumore maligno, impedendo al paziente di curarsi in maniera corretta. È la sintesi - secondo la lettura del gip Filippo Serio - della terribile fine toccata a Darin D’Anna, giovane biologo palermitano il cui percorso di studi (ha avuto la laurea magistrale post mortem, per decisione dell’Università) fu fermato da una malattia che, nel giro di qualche anno, lo portò via per sempre, il 4 giugno 2020. Non fu una fatalità, sostiene adesso il giudice, che ha premiato la lunga battaglia dei familiari accogliendo le tesi degli avvocati Salvatore Vitrano e Nino Agnello, legali delle persone offese: ordinata così l’imputazione coatta per quattro medici del San Raffaele Giglio di Cefalù e del Cervello. Ora la Procura, che aveva chiesto l’archiviazione, è obbligata a formulare l’imputazione di omicidio colposo nei confronti di Filippo Boniforti, Aroldo Gabriele Rizzo, Angelo Vetro e Giancarlo Pompei.
I quattro erano stati denunciati dallo stesso Darin, quando era ancora in vita, con l’ipotesi di lesioni gravi colpose, poi trasformata nel reato più grave dopo la scomparsa del biologo: perché questa vicenda inizia nel 2014, quando lo stesso giovane scoprì una formazione nodulare al ginocchio sinistro. La diagnosi iniziale, fatta a Cefalù, fu di sinovite villo-nodulare, poi meglio specificata in cisti di Baker. Invece. si trattava del ben più grave sarcoma sinoviale, un tumore maligno della peggior specie, che alla lunga uccide. Se preso in tempo, però, forse non sarebbe stato letale: i consulenti nominati dalla madre, Lucia Costanzo, docente di Biologia molecolare, e dal fratello, Davide D’Anna, hanno rilevato la positiva reattività di Darin alle cure. Ma era già troppo tardi.
In questa storia i medici si sono difesi sostenendo l’impossibilità di scoprire la vera natura della malattia. Emergono però, secondo il gip, «imperizia e approssimazione diagnostica che, a cascata, si sono riflesse nella valutazione e programmazione dell’iter» delle cure da prescrivere al paziente. Non ci fu alcun follow up, le verifiche periodiche con cui si segue il decorso della malattia. Addirittura Lucia Costanzo, da esperta ma anche da privata cittadina, decise di mandare da sé i vetrini al Rizzoli di Bologna (e dunque al Servizio sanitario regionale dell’Emilia Romagna): l’atroce sofferenza di una madre - competente in materia - che scoprì così la gravità della malattia del figlio.
«Rilevano i periti che, pure ammettendo la difficoltà di pervenire a una diagnosi di sarcoma - si legge nell’ordinanza del giudice Serio - i medici avrebbero dovuto riconoscere nei campioni esaminati gli elementi indicativi di una neoplasia maligna». In attesa del possibile processo, i medici dovranno difendersi dall’accusa di avere «commesso errori diagnostici, chirurgici e terapeutici, in quanto a causa di esami strumentali incompleti e di un’analisi non corretta, non sono stati in grado di pervenire a una diagnosi di neoplasia maligna sarcomatosa».
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