«Quel 23 maggio ero a Castello di Cisterna, in provincia di Napoli, quando arrivò la notizia devastante per tutti noi. Era stato colpito un emblema, un magistrato che era il punto di riferimento per tutti noi investigatori. Ma dopo la reazione dello Stato fu forte: da quella morte abbiamo avuto una spinta e abbiamo decuplicato gli sforzi». Quando la mafia fece saltare in aria l’autostrada a Capaci uccidendo Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e i poliziotti della scorta, il generale Pasquale Angelosanto era un giovane ufficiale e guidava un gruppo investigativo impegnato contro la camorra vesuviana, che insanguinava l’hinterland napoletano.
Il comandante del Ros dei carabinieri, in un’intervista all’Ansa, ricorda quel momento come uno spartiacque. Ci fu una spinta ideale e i risultati arrivarono. «A settembre del '92 riuscii, con gli uomini del nucleo investigativo di Castello di Cisterna, ad arrestare un grande latitante dell’epoca in Campania, Carmine Alfieri, capo della camorra vesuviana. Ci furono i grandi arresti, a gennaio '93 Riina, poi i capi di Cosa nostra catanese, Santapaola e Pulvirenti, nel '94 i fratelli Graviano, a seguire Bagarella, e ancora i fratelli Brusca. Quindi la reazione fu tangibile».
«Un nuovo assetto normativo, giudiziario, amministrativo», contribuì molto a contrastare le mafie. Lo stesso Ros era stato istituito due anni prima, la Dia nel '91. «Quando Cosa nostra si è resa conto che la contrapposizione feroce con lo Stato non era stata pagante, ha cominciato a cambiare strategia - dice il generale -. Noi riteniamo che ci sia stato un ritorno al vecchio: alla sommersione».
Quando si dice che la mafia senza i grandi capi è cambiata, si registra di fatto un ritorno al passato, perché l'infiltrazione dell’economia è da sempre un obiettivo: «Arricchirsi, e attraverso l’arricchimento conseguire il potere sul territorio». Gli arresti nell’immediato non avevano rimosso gli assetti ordinativi: «Riina è stato il capo di Cosa nostra fino alla sua morte, nel 2017. Però con tutte le difficoltà dovute al 41 bis», un regime introdotto per impedire che i capimafia potessero continuare a disporre dal carcere. Ora che sono morti, è Matteo Messina Denaro il capo dei capi? «Su questo voglio essere molto chiaro», risponde Angelosanto: «C'è stata in un certo momento quest’idea perché la componente trapanese era stata la principale alleata della componente corleonese. Quindi con l’arresto di Riina e Provenzano qualcuno ha pensato che l'eredità fosse stata presa da lui. Ma Messina Denaro non è stato mai il capo di Cosa nostra: è stato ed è il capo della provincia trapanese di Cosa nostra - precisa -. Ce l’ha saldamente nelle mani», ma «al tempo stesso possiamo anche dire che c'è in sofferenza anche all’interno dei mandamenti trapanesi». Un capo criticato è anche più aggredibile? Angelosanto ricorda che negli ultimi anni sono stati arrestati oltre 130 associati, ci sono stati sequestri milionari: «Depotenziamento della struttura militare e impoverimento dell’organizzazione. Attraverso queste due modalità di aggressione noi siamo fiduciosi di ottenere il risultato. Sperando che arrivi quanto prima».
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