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Via D'Amelio, la Cassazione: «Ancora zone d'ombra ma fu la mafia»

La strage di Via D'Amelio

Non ci sono dubbi che l’attentato al giudice Paolo Borsellino e ai cinque agenti della scorta morti con lui - Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina - è di «paternità mafiosa», anche se ci sono «anomalie» sulle quali non si è riusciti a fare luce, dopo quasi 30 anni. Come il coinvolgimento del Sisde, la presenza di uomini dei ‘servizì sul luogo della strage subito dopo la deflagrazione di 90 chili di tritolo e pentrite, a Palermo il 19 luglio 1992, e «zone d’ombra» come la scomparsa dell’agenda del magistrato e la sua “ricomparsa dopo alcuni mesi nelle mani del dottor La Barbera che la riconsegnava alla moglie del magistrato» . A dirlo è la Cassazione nelle motivazioni, oltre 120 pagine, sul processo Borsellino quater conclusosi lo scorso 5 ottobre con la conferma dell’ergastolo per due boss - Salvatore Madonia e Vittorio Tutino - e le condanne per due falsi pentiti, Calogero Pulici (dieci anni) e Francesco Andriotta (9 anni e otto mesi) colpevoli di calunnie che hanno mandato in carcere sette persone innocenti.

L'Avvocato generale: "Abnormi inquinamenti delle prove"

Per gli ermellini, inoltre, quanto emerso nel processo sulla cosiddetta trattativa tra Stato mafia - come hanno stabilito i giudici di merito di Caltanissetta - è di «sostanziale neutralità» e non ci sono «nuovi scenari», nonostante gli «abnormi inquinamenti delle prove» che hanno pervaso le indagini. Tanto da far dire all’Avvocato generale della Cassazione, Pietro Gaeta, che si è trattato di «una mostruosa costruzione calunniatrice», «una delle pagine più vergognose e tragiche» della storia giudiziaria italiana.

La strage aveva "finalità preventive"

Ad avviso della Suprema Corte, in modo condivisibile, i magistrati siciliani hanno ritenuto che «i dati probatori relativi alle zone d’ombra possano al più condurre a ipotizzare la presenza di altri soggetti o di gruppi di potere (co)-interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino, ma ciò non esclude il riconoscimento della paternità mafiosa dell’attentato di Via D’Amelio e della sua riconducibilità alla strategia stragista deliberata da Cosa Nostra, prima di tutto come risposta all’esito del maxi processo». Tutto questo - rileva la Cassazione - «non fa certo venir meno la complessità finalistica di quella strategia, proiettata in una triplice dimensione: una finalità di vendetta contro il nemico storico di Cosa Nostra rimasto in vita dopo la strage di Capaci», una «finalità preventiva, volta a scongiurare il rischio che Borsellino potesse raggiungere i vertici delle nuove articolazioni giudiziarie promosse da Giovanni Falcone».
Terza e ultima, una «finalità schiettamente destabilizzatrice» dell’attentato di Via D’Amelio volta a “mettere in ginocchio lo Stato» ma «sempre nella prospettiva di Cosa Nostra tesa a «fare la guerra per poi fare la pace». Così gli ‘ermellinì hanno convalidato la ricostruzione della strage tessuta dalla Corte di Assise d’appello di Caltanissetta nella sentenza del15 novembre 2019, invano contestata dalle difese degli imputati.

La terribile vendetta aveva radici lontane

Con riferimento alla finalità di «vendetta», i supremi giudici ricordano che «ben prima della strage di luglio, Cosa Nostra aveva manifestato seri e concreti progetti» di uccidere Borsellino. «Risale al 4 maggio 1980 l’omicidio del capitano dei carabinieri Tommaso Basile che nel racconto del collaboratore di giustizia Di Carlo», secondo Totò Riina - scrivono gli ermellini - «ricadeva sulla coscienza del magistrato che aveva mandato l’ufficiale ad arrestare i suoi» (di Riina) uomini. Anche i Madonia ce l’avevano a morte con Borsellino: dopo l’omicidio del capitano Basile, il giudice aveva emesso dei mandati di cattura per il padre e il fratello di Salvatore Madonia. In questo processo, riconosce la Cassazione, le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza sono state la «pietra angolare, e la decisione di assassinare Borsellino fin dagli anni ‘80 «non priva la riunione tenuta intorno agli inizi di dicembre del 1991 dalla Commissione Provinciale della sua valenza di rinnovazione della deliberazione».

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