«Sono stato vittima di un teorema che doveva mortificare lo Stato e un suo uomo. Sono stato volutamente additato ad emblema di una trattativa inesistente, relegato perciò per anni in un angolo. Non mi invitavano più neanche al Senato».
A dirlo l'ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, assolto in primo grado dall’accusa di falsa testimonianza nell’ambito del processo sulla presunta trattativa Stato-Mafia. L’accusa non fece ricorso in appello. «Alla fine mi è stata resa giustizia. Ma che sofferenza!», racconta. Nell’estate del 1992 «lo Stato venne colto di sorpresa - spiega -. Col senno di poi dobbiamo ammettere che non era preparato. Dobbiamo aggiungere che da allora la lotta alla mafia è stata efficace». Per Mancino gli attentati a Falcone e Borsellino «erano eventi non prevedibili». E alla domanda su cosa abbia provato quando ha saputo dell’esito della sentenza Stato-mafia, Mancino risponde: «Ho pensato che il verdetto cancellava d’un colpo ciò che la Procura di Palermo aveva costruito in dieci anni di indagini. È crollato un intero castello d’accusa».
Le intercettazioni di alcune conversazioni fra Mancino e l'allora capo dello Stato Giorgio Napolitano finirono al centro di un caso giudiziario. Il contenuto delle conversazioni non è mai stato reso noto. Ma di insinuazioni malevole, sussurri, schizzi di fango ce ne furono molti. Tanto da lasciare in alcuni il dubbio, smentito dalla stessa Procura di Palermo, che quei dialoghi aveva ritenuto irrilevanti per l’inchiesta sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, pur guardandosi bene dal distruggerli, che l’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano e l'ex senatore Nicola Mancino, al telefono, avessero tramato chissà quali piani per affossare l’indagine del secolo. Fu un momento di grande tensione, forse il più alto negli anni di una inchiesta raccontata passo passo dai media. E alla fine, saputo che i pm di Palermo, che per mesi avevano intercettato Mancino, indagato nella trattativa per falsa testimonianza, indirettamente avevano finito per ascoltare anche le sue conversazioni con il capo dello Stato, il Quirinale decise di sollevare conflitto di attribuzione dinnanzi alla Corte Costituzionale nei confronti della Procura della Repubblica di Palermo per l’uso delle intercettazioni.
Era il 16 luglio del 2012. Cosa si siano detti l’ex presidente e Mancino non si è mai saputo, anche se protagonisti del caso, come l’ex pm Antonio Ingroia, hanno addirittura annunciato che sulla vicenda avrebbero scritto libri. Di certo c'è che l’ex senatore era preoccupato per la confusione giudiziaria che regnava sulla indagine sulla trattativa che più Procure conducevano, ciascuna con una sua linea. Di questo sicuramente Mancino parlò con l'allora consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio e con l’allora capo della Dna Piero Grasso, al quale sollecitò un coordinamento delle inchieste. Le telefonate di Mancino con D’Ambrosio e Grasso vennero intercettate ma, al contrario di quelle con Napolitano, furono depositate agli atti.
Il caso, dunque, finì alla Consulta alla quale toccò stabilire se fosse o meno legittimo, seppur indirettamente, intercettare il capo dello Stato. Nel ricorso predisposto dall’Avvocatura dello Stato per conto del Colle si riteneva violato l’art. 90 della Costituzione, in base al quale il presidente non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. Nell’atto si citava poi la legge che stabilisce che nei confronti del capo dello Stato non possono essere eseguite intercettazioni se non dopo che la Consulta lo abbia sospeso dalla carica. Rispose la Procura di Palermo che doveva essere il gip, decidendo complessivamente sulle intercettazioni, a decidere lo stralcio del materiale pur ritenuto irrilevante tramite la cosiddetta «udienza filtro», nel corso del quale le conversazioni sarebbero state ascoltate da tutte le parti dell’udienza.
Alla fine la Corte diede ragione al Colle. «Le prerogative del Capo dello Stato sono state già lese dai pm con la valutazione dell’irrilevanza delle intercettazioni e la loro permanenza agli atti dell’inchiesta e sarebbero ulteriormente lese da una camera di consiglio per deciderne in contraddittorio la distruzione», scrisse, tra l’altro, la corte. E al gip non rimase che distruggerle.
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