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Palermo, l'omelia di Lorefice: "Non è un Natale diverso, non facciamo i brontoloni per i divieti"

Di seguito il testo dell’omelia pronunciata questa sera dall’arcivescovo di Palermo monsignor Corrado Lorefice che ha presieduto la veglia di Natale in Cattedrale che ha accolto il numero massimo di fedeli consentito dalle disposizioni anti-Covid. 

L’arcivescovo presiederà il solenne Pontificale di Natale domani alle 11 sempre in Cattedrale.

 

A Natale il futuro eterno è venuto nel nostro tempo, prende corpo. ‘A-vviene’, s’incarna, prende corpo, la Parola di Dio, «la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini» (Tt 3,4-5). Dio-Amore si incarna per amore. L’Amore di Dio, la sua misericordia per noi uomini prende corpo. «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14).

S’incarna l’Amato, il Prediletto di Dio: Gesù, il figlio concepito nel cuore e nel grembo di Maria, l’umile donna di Nazaret, nato in una grotta a Betlemme, custodito da Giuseppe e riconosciuto dai pastori. Nato non nel fasto ma nella povertà, non in un palazzo o in una lussuosa clinica, ma da nomade, in un alloggio di fortuna, tra gente marginale ed emarginata come i pastori.

È un «avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere» (Lc 2,16). Il Natale di Gesù suscita stupore e chiede silenzio adorante, custodia del cuore. Il Natale - prima di tutto - ci spinge alla contemplazione. Solo lo stupore e il silenzio possono aiutarci a comprendere la verità del Natale, che cosa apporta la nascita di questo Bambino nella nostra vita, la parola di verità che la interpella e la coinvolge.

A Natale viene crocifisso il sentimentalismo. Il buonismo di circostanza. Il paternalismo. A Natale sgorga la lode della gloria di Dio che rifulge in ogni essere vivente, nel volto di ogni donna e di ogni uomo. Quest’anno siamo oltremodo provocati anche dagli eventi della pandemia e dallo stile di vita che ci viene chiesto dalla responsabilità della salvaguardia della vita nostra e altrui. Non possiamo rifugiarci, da indaffarati, nei trambusti alienanti incorniciati ad hoc nelle ricorrenze di feste ormai esautorate del loro significato umano e spirituale. Né vivere da brontoloni per quello che ci viene vietato di fare. Per quello che non possiamo consumare. Per le tradizioni religiose e le manifestazioni civili che non possiamo realizzare.

Questo Natale non è diverso. È il Natale di sempre che chiede di essere accolto nel nostro sacrario interiore, nelle nostre coscienze. È l’avvento di questo amore così grande, così vitale, così irrinunciabile per noi, così bello, così umano, perché totalmente divino. È la venuta del Signore Gesù, l’Emmanuele. Dio è con noi. È tra noi.

«L’aspetto familiare, infantile, di questa festa, che senz’altro si addice a questo giorno, dovrebbe rimanere trasparente a quel mistero ineffabile che rende umane le persone, profondamente disponibili tra loro e dona loro la promessa di una giovinezza. Solamente chi, nel silenzio del mite raccoglimento, della dedizione capace di rinuncia, nella silenziosa notte santa del proprio cuore fa passare in secondo piano la molteplicità delle cose, delle persone delle aspirazioni, che altrimenti gli ostruiscono la vista sull’infinito; solamente chi spegne, almeno per un breve momento, leluci terrene che altrimenti gli impediscono di vedere le stelle del cielo; solamente chi, in questa silenziosa notte del cuore, si lascia interpellare dall’ineffabile, muta vicinanza di Dio, che parla col suo tacere, nella misura in cui abbiamo orecchi per essa, solamente costui celebra il Natale così come deve essere celebrato, se vogliamo che non degeneri in una festa solamente mondana» (K. Ranher, Dio si è fatto uomo, 87-88).

Nessuna cosa oggi deve appesantire o sviare i nostri cuori. Nessuna paura perché brilla una luce. Nessuna distrazione. Perché nessuna sicurezza umana deve o può continuare ad illudere la nostra intelligenza e a fuorviare il desiderio più profondo che alberga in noi.

Il Natale è fatto per l’intelligenza del cuore. È il dono massimo di Dio a noi uomini. Si rivela nei cuori e lo seduce: «C’è una cosa sola che non è imposta: l’amore. C’è una cosa sola che deve nascere dentro il nostro cuore senza che nessuno la manovri ed è l’amore. Cristo è l’amore: non comanda niente, attrae» (Don Primo Mazzolari, Natale 1958).

Natale è lì dove c’è un cuore che nonostante tutto continua ad amare. A voler bene. Ad andare incontro all’altro. A resistere al male. Non c’è Natale tutte le volte che non amiamo. Quando non contribuiamo al canto della vita. La vita sboccia dall’amore di un uomo e di una donna. La vita si nutre essenzialmente di amore. Di questo fragrante pane sostanziale che è l’amore. Se il nostro cuore non viene nutrito e irrorato dall’amore, non batte, si blocca, si sclerotizza e si ferma. Emana freddezza. Infecondità. Aridità.

Non per nulla la morte sopraggiunge definitivamente con l’arresto del cuore. Ci strappa il cuore. Non ci fa più sentire il battito del cuore di quanti amiamo. Ci separa. Ci divide da chi amiamo e da chi ci ama. Noi uomini siamo soggetti anche alla morte spirituale. La morte dell’uomo interiore che sopraggiunge con la grave e irreversibile malattia della sclerocardia, della durezza del cuore. Quando si affievolisce l’Amore e prende il sopravvento l’egoismo, l’autolatria. Quando non amiamo veniamo asserviti dalla morte. Seminano separazione, ingiustizia, violenza, sopruso; innalzano muri, provochiamo voragini di distanza, contagiamo morte. A Natale ci sono chiesti l’intelligenza genuina e l’umile piglio dei pastori.

Occorre essere novelli pastori. E per questo siamo chiamati a farci amici gli emarginati della nostra società, gli scarti di questo nostro tempo. I poveri di sempre e i nuovi, frutto delle nostre scelte nate dalla sclerocardia. In essi invece converge il desiderio di Dio e degli uomini. Il desiderio di una nuova bella notizia, dell’Evangelo. E il desiderio che arrivi come grazia «apportatrice di salvezza per tutti gli uomini» (Tt 2,11). Poniamoci in ascolto vero della loro esperienza, facciamoci ferire dalle loro ferite, lasciamoci evangelizzare da loro. Facciamoci indicare un nuovo stile di vita. Silenzio e azione a partire dallo stupore del cuore. Desiderio di vita piena. Di felicità. Di casa. Di affetti veri. Di pace. Di vita e di comunione eterna. «Nel Natale possiamo vedere come la storia umana, quella mossa dai potenti di questo mondo, viene visitata dalla storia di Dio. E Dio coinvolge coloro che, confinati ai margini della società, sono i primi destinatari del suo dono, cioè la salvezza portata da Gesù.

A queste persone, rappresentate dai pastori di Betlemme, «apparve una grande luce» (Lc 2,9-12). Loro erano emarginati, erano malvisti, disprezzati, e a loro apparve la grande notizia per prima. Con queste persone, con i piccoli e i disprezzati, Gesù stabilisce un’amicizia che continua nel tempo e che nutre la speranza per un futuro migliore. A queste persone, rappresentate dai pastori di Betlemme, apparve una grande luce, che li condusse dritti a Gesù. Con loro, in ogni tempo, Dio vuole costruire un mondo nuovo, un mondo in cui non ci sono più persone rifiutate, maltrattate e indigenti» (Francesco, Udienza generale del 27 dicembre 2017).

Entriamo anche noi nell’intimo dialogo di Maria, fulgida icona della Chiesa di ogni tempo, cui dà voce Erri De Luca ne Il nome della Madre: «Le voci dei pastori stanno cercando l’alba. Fuori c’è una città che si chiama Bet Lèhem, Casa di Pane. Tu sei nato qui, su una terra fornaia. Tu sei pasta cresciuta in me senza lievito d’uomo. Ti tocco e porto al naso il tuo profumo di pane della festa, quello che si porta al tempio e si offre» (p. 70). Scendiamo anche noi oggi a Betlemme. Tocchiamo il Bambino Gesù che qui abbiamo incontrato e adorato perché anche noi possiamo odorare di pane della festa, quello che si porta al tempio e si offre a Dio riconosciuto presente in ogni volto umano che tende la mano, che ci chiede di fare strada con noi, di conoscere e di prendere parte a nuovi cammini di fraternità e di liberazione. Il Natale chiede a tutti ‒ non solo ai cristiani ‒ la profezia dell’amore.

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