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In ospedale da medico a paziente: la doppia battaglia del professore Vitale contro il Covid

Il 22 ottobre 2020, giorno qualunque di un'emergenza sanitaria vissuta da esperto, come materia di studio, come sfida professionale. Un giorno qualunque in cui però rientrando a casa si manifesta il sentore di una febbricola. Lieve ma inaspettata dopo un vaccino antinfluenzale servito proprio a scongiurare malanni di stagione e magari a schivare sintomi equivoci. La temperatura è lì in agguato e sospetta.

Il professore Francesco Vitale coglie all'istante. È un medico, ordinario di Igiene e medicina preventiva dell'Università di Palermo. Non solo, ha fatto parte del primo Comitato tecnico scientifico regionale per il Covid. Ha attraversato l'avventura pandemica della Sicilia dalla primavera a questa parte. Il professore ha formato qualche generazione di dottori, sa di infettivologia. E capisce che forse ha contratto il Coronavirus.

Basta un test per averne la prova. I segni della malattia lì per lì non sono gravi. Ma grande deve essere stata la sorpresa per uno scienziato, avvezzo alle precauzioni. «Avevo qualche linea, niente di più. Arrivata la conferma del contagio sono rimasto a casa per nove giorni». Un paziente paucisintomatico, si dice in termini medici. Il Covid gli si manifesta nella prima fase come quella brutta influenza cui lo riduce il fronte dei negazionisti.

E invece il virus è scorretto. Si mostra, si nasconde e poi aggredisce. Cala il respiro, si abbassa la capacità polmonare, Vitale se ne rende conto. Se gli oggetti hanno un'anima, persino gentile, allora sia fatto santo subito il saturimetro. Il professore ha intuito l'evoluzione in peggio della sua infezione grazie a quello. Uno strumento semisconosciuto fino a pochi mesi fa per l'intera popolazione mondiale, che rischia adesso di essere il regalo di Natale più acquistato sulle piattaforme dell'e-commerce. Vitale ha misurato da sé per oltre una settimana la sua respirazione, ha monitorato il calo della saturazione. Si stava aggravando, 39 di febbre tutto il tempo. A quel punto i colleghi con cui di Coronavirus aveva parlato al tavolo delle riunioni on line o di presenza per tracciare strategie e linee di indirizzo, sono diventati consiglieri. Più d'uno gli dice: è il momento di andare in ospedale. La valigia è pronta, si va in reparto da paziente e non da professore di medicina.

Nemesi romanzesca per un docente, autore di decine di pubblicazioni, esploratore a tutto campo delle scienze mediche che spaziano finanche nell'epidemiologia. Vitale è un esperto di sorveglianza e controllo delle malattie infettive. Ha 62 anni. Per lui si apre l'esperienza del ricovero. «Sono stato in ospedale per 18 giorni», racconta dalla sua convalescenza Vitale. Quasi tre settimane alle prese con una insidiosa polmonite bilaterale. Una sospensione del giudizio, della propria vita quotidiana, per non parlare di quella professionale. Spazi bianchi, azzurro cielo, i camici da astronauti sulla terraferma di pneumologi e infermieri. I nomi scritti a caratteri cubitali sulle spalle per rendersi riconoscibili.

«Covid vuol dire isolamento e preoccupazione, paura vera e propria – dice il medico nella veste di paziente – sono stati giorni difficili con un picco di apprensione i primi di novembre». Improvvisamente il quadro flogistico si è complicato, si è manifestata una condizione di infiammazione. «In otto ore è comparsa la mia tempesta immunitaria – racconta Vitale -. Tutti i valori ematologici in tilt. I medici si sono allarmati. Per fortuna un'angiotac ha escluso complicazioni più gravi». Il decorso della malattia da Coronavirus non è uguale per tutti, si sa. Attorno storie anche più drammatiche: «Ho avuto compagni di stanza alle prese col virus ma anche con la solitudine – ricorda Vitale –. Non potrò dimenticare chi non ce l'ha fatta e persone anziane profondamente sole, con la compagnia di un telefono e a casa nessuno ad aspettare». Nel reparto di Pneumologia del Policlinico di Palermo guidato dal professore Nicola Scichilone, il collega Vitale è stato uno come tanti: «L'attenzione e la cura di medici e infermieri sono state costanti per tutti. Vederli soffocati dalle tute di protezione, con gli occhiali appannati per oltre sei ore, la loro sofferenza per guarire la nostra, ha lasciato il segno».

Si legge gratitudine fra le pieghe di una testimonianza. Riconoscenza che Vitale vuole allargare anche a chi a distanza obbligata lo ha incoraggiato nei lunghi giorni della degenza. Da casa la moglie Maria Grazia e la figlia Fabrizia di 29 anni; Claudia, la più grande (ne ha 32) vive per conto suo. Familiari e amici non lo hanno fatto sentire solo nella cattività della corsia d'ospedale. La terapia è stata quella che tutti abbiamo imparato a conoscere in questi mesi in cui il linguaggio quotidiano ha dovuto affollarsi di termini medici: antibiotici, eparina, cortisone, fino al misconosciuto Remdevisir, l'anti-Covid che si somministra sotto la sorveglianza dell'Agenzia italiana del farmaco. Per capire il Sars Covid-19 ci vorrà ancora tempo e ciò nonostante la corsa ai vaccini sia adesso a buon punto e forse persino sfrenata. Vitale faccia a faccia con la malattia di cui osservava da mesi la velocità espansiva, ora è in convalescenza. C'è ancora traccia di positività nel suo organismo ma respira bene. Attende un altro tampone, forse altri due e dice: «Faccio ginnastica respiratoria quasi tutti i giorni. Sto all'aria aperta avendo un po' di spazio attorno a casa». Un capitolo della vita che si incornicia con nuove consapevolezze.

Il professore Vitale raccomanda fiducia nei medici, nella scienza e apertamente confessa che se non avesse fatto il vaccino influenzale l'impatto con il Covid avrebbe potuto essere tardivo e più pericoloso. Infine la domanda: dove ci si è imbattuto? Il caso è uno degli alleati prediletti dai virus. Vitale è responsabile del centro di riferimento regionale Covid, dove si somministrano tamponi e vaccini. Lì tutto il personale è costantemente monitorato e non c'era stato neppure un positivo. Lo stesso a casa. «La mia vita si divide fra questi due ambiti – chiude il professore –. Avrò avuto un colloquio di troppo. Ma i medici non hanno molta scelta, hanno un doppio mandato: curare e ascoltare».

 

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