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Piersanti Mattarella, l'ultima intervista poche ore prima dell'omicidio: buio dopo 40 anni

Si conoscono i mandanti ma non i sicari. C'è una verità ancora tutta da scrivere sull'uccisione di Piersanti Mattarella. Quarant'anni fa, il 6 gennaio 1980, la stagione del rinnovamento in Sicilia che aveva come protagonista il fratello del presidente della Repubblica venne fermata a colpi di pistola.

Sul Giornale di Sicilia di oggi, l'ultima intervista a Piersanti Mattarella, fatta da Giovanni Pepi, poche ore prima del suo omicidio: "II problema della mafia esiste perché nella società a diversi livelli, nella classe dirigente non solo politica. Ma pure economica e finanziaria, si affermano comportamenti individuali e collettivi che favoriscono la mafia - dice chiaramente Mattarella -. Bisogna intervenire per eliminare quanto a livello pubblico, attraverso intermediazioni e parassitismi, ha fatto e fa proliferare la mafia. Pure è necessario risvegliare doveri individuali e comportamenti dei singoli che finiscono con il consentire il formarsi di un'area dove il fenomeno ha potuto, dico storicamente, allignare e prosperare".

"I nodi sono molto grossi - dice quasi profetico- le armi sono spuntate. Spero di farcela e presto". Poche ore dopo, purtroppo, l'attentato.

L'ordine veniva dalla cupola mafiosa, ma l'inchiesta ha sempre tenuto aperta la pista di una saldatura tra cosa nostra e l'eversione neofascista. A batterla per primo e a lungo è stato Giovanni Falcone. Davanti alla Commissione antimafia, che ora ha reso pubblico il verbale dell'audizione riservata del 3 novembre 1988, Falcone aveva spiegato: "Si tratta di capire se, e in quale misura, la 'pista nera' sia alternativa a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa. Il che potrebbe significare altre saldature".

Al centro di questo scenario intrecciato c'è la figura di Giusva Fioravanti, capo dei Nar. La moglie di Mattarella, Irma Chiazzese, fu colpita dai suoi "occhi di ghiaccio" che neanche si sciolsero quando la pistola si inceppò dopo i primi colpi. Il sicario corse dal suo complice che lo attendeva su un'auto rubata e si fece consegnare una seconda pistola per completare l'opera. Quell'uomo che rimase defilato è stato identificato in Gilberto Cavallini, altro esponente dei Nar. Ma l'inchiesta non è andata oltre questi sospetti, sostenuti anche da collaboratori neofascisti come Cristiano Fioravanti, fratello di Giusva. Rinviati a giudizio, Fioravanti e Cavallini verranno assolti e la sentenza sarà poi confermata in Cassazione. Le prove non hanno retto in dibattimento. La pista nera è rimasta sempre aperta ma dopo 40 anni è ormai impossibile provare la tesi che Mattarella sia stato ucciso con la stessa arma usata per abbattere il giudice romano Mario Amato. Il deperimento materiale dei reperti e dei proiettili rende inaffidabile un esame comparativo. Resta chiaro invece il contesto nel quale il caso Mattarella si iscrive.

Per Falcone andava collegato ad altri due delitti "politici". Ne furono vittime nel 1979 il segretario della Dc palermitana Michele Reina e nel 1982 il segretario regionale del Pci Pio La Torre. Anche loro, come Mattarella, erano impegnati in un'azione di rinnovamento morale della politica in Sicilia.

Mattarella era consapevole non solo dei rischi ma anche della complessità dell'operazione. Era a capo di una giunta di centro sinistra che con il sostegno del Pci aveva promosso un'esperienza autonomistica sul modello della solidarietà nazionale. La linea di Mattarella era parte dell'eredità di Aldo Moro, ucciso un anno e mezzo prima dalle Brigate Rosse. Per questo, come scrissero i giornali, quarant'anni fa la mafia forse con l'appoggio del terrorismo nero firmò il più grave "delitto politico" dopo quello di Moro.

 

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