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Piccolo Di Matteo, la madre: non sapevo cosa facesse mio marito, l'avrei lasciato

Al processo sulla strage Borsellino ha deposto Franca Castellese

CALTANISSETTA.  «Io non so nulla di quello che faceva mio marito. Non mi ha contattato nessuno e ora non mi ricordo più niente, per me è tutto morto e sepolto. Non ricordo più nemmeno cosa dissi a mio marito e non so perchè ho detto certe cose. Gli argomenti sui quali mio marito collaborava li apprendevo dai giornali. Non avevo la minima idea di cosa facesse prima di venire arrestato, altrimenti l'avrei lasciato all'istante, perchè è uno schifo, è una cosa che mi disgusta. Mi ricordo solo che il giorno della strage di via D'Amelio eravamo a mare».

Lo ha detto Franca Castellese, la moglie del pentito Mario Santo Di Matteo, deponendo in Corte d'Assise a Caltanissetta nel quarto processo per la strage di via D'Amelio, in cui fu ucciso il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti della polzia di Stato, che vede imputati Salvo Madonia e Vittorio Tutino per strage e i falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Calogero Pulci per calunnia.  La donna non ha saputo chiarire a cosa si riferisse, quando, il 14 dicembre '93, nel corso di un colloquio in carcere con il marito, parlò di «un infiltrato nella mafia che organizzò la strage di via D'Amelio».

Castellese ha dapprima risposto in maniera evasiva, per poi dire di non ricordare più nulla. Il pm e i legali di parte civile hanno posto diverse domande alla teste chiedendole perchè continuasse a dire di non essere stata contattata da nessuno. Le parti hanno quindi cercato di sapere se fosse stata avvicinata da personaggi delle istituzioni o delle forze dell'ordine, ma Franca Castellese ha negato la circostanza aggiungendo di non avere mai visto il marito in compagnia di estranei.

«Ricordo che si incontrava con Giovanni Brusca - ha aggiunto - ma per me era un amico di mio marito». La donna non ha trattenuto le lacrime quando si è parlato del rapimento del figlio, il piccolo Giuseppe Di Matteo. «Mi ricordo che dopo il rapimento di Giuseppe arrivarono dei biglietti a casa - ha ricordato Castellese - con messaggi intimidatori. E ci ammazzarono degli animali che avevamo in campagna, li avvelenarono».

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