PALERMO. A scatenare l’inferno dovevano essere due capi della vecchia e nuova mafia, il sessantaseienne reggente di San Lorenzo, Girolamo Biondino, e Vito Galatolo, poco più che quarantenne ma da sempre nei piani alti della sua famiglia, quella dell’Acquasanta: ma l’esplosivo con cui si sarebbe dovuto realizzare l’attentato contro il pm Nino Di Matteo non si trova, nemmeno dopo scavi e ricerche intensissime, condotte nella zona di Monreale e in particolare nella casa di campagna di Vincenzo Graziano, mafioso di Resuttana, scarcerato per fine pena nel 2012, ritenuto pure lui inserito in questa brutta faccenda.
Anche altre perquisizioni non hanno dato esito e dunque cresce l’inquietudine, dopo l’allarme lanciato da Galatolo, che ha parlato di una missione di morte, di un blitz quasi pronto contro il pm del processo trattativa, e stoppato solo dagli arresti di Apocalisse, avvenuti nel giugno scorso: affiora però anche qualche perplessità, perché nell’operazione condotta congiuntamente da carabinieri, polizia e Guardia di Finanza, in migliaia di ore di intercettazioni non si era percepito alcunché, riguardo alla preparazione di un evento così devastante, che avrebbe richiesto impegno, consenso, movimenti di uomini e mezzi.
Ecco perché gli investigatori sono stati chiamati a rileggere alcune delle intercettazioni-clou, quelle in particolare che, a cavallo dell’Immacolata del 2012, dimostrano che Biondino e Vito Galatolo avrebbero avuto un contatto diretto. Sarebbe stata quella, l’occasione in cui i due capi più importanti del «direttorio» avrebbero dato il via alla fase preparatoria dell’attentato.
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