
Quando la scienza incontra la vita reale servono pazienza, resilienza e un pizzico di coraggio. Lo sa bene una paziente di 77 anni di Castellammare del Golfo, pronta a ricevere la terapia Car-T per il mieloma multiplo all’ospedale Cervello di Palermo, un trattamento che trasforma i linfociti del paziente in «cacciatori» delle cellule tumorali. Ma il percorso verso la cura è stato rallentato da un ostacolo imprevisto: il macchinario per il prelievo, dopo due ore di tentativi, non ha funzionato. È stato necessario ricorrere a un secondo dispositivo, allungando tempi e fatica e anche in questo caso le difficoltà non sono mancate.
A raccontare la vicenda è Antonina Di Gregorio, figlia della signora, che racconta con lucidità e passione una storia di sofferenza, speranza e anche rabbia per le difficoltà in cui la madre si è imbattuta. La paziente è arrivata all’ospedale Cervello, a oltre 60 chilometri di distanza dalla sua abitazione, per una cura innovativa, dopo che tre diversi tentativi tradizionali non avevano dato risultati soddisfacenti.
«Dopo tre terapie, l’ultima delle quali non ha funzionato e a fronte di sofferenze indicibili con benefici minimi, l’oncologo ha proposto la terapia Car-T», spiega la figlia. La terapia prevede un prelievo venoso di plasma e linfociti T, le cellule bersaglio del mieloma. «La sacca - aggiunge Randazzo - con almeno 50 millilitri di plasma viene poi inviata a un centro specializzato, dove il sangue del paziente diventa un farmaco capace di riconoscere e distruggere solo i linfociti malati», aggiunge la figlia.
La signora lotta da otto anni con la malattia, affrontando terapie e controlli con grande coraggio. Ma il giorno del prelievo la procedura si è trasformata in una prova di resistenza: sei ore con un accesso giugulare per estrarre la quantità necessaria di sangue. «È inconcepibile che il macchinario separatore fosse obsoleto e malfunzionante - denuncia Antonina -. Mia madre è rimasta attaccata al dispositivo per due ore senza che venisse estratta neppure una goccia di sangue. Poi altre quattro ore con un secondo macchinario, lentissimo, che ha estratto appena il minimo necessario, rischiando di invalidare l’intera procedura».
La figlia non risparmia critiche ma riconosce anche l’impegno dei medici. «Non appena si sono accorti che la procedura stava durando più del previsto ed era stata raccolta solo poco più della metà della quantità necessaria, i medici si sono attivati per contattare la persona che avrebbe dovuto ritirare la sacca e portarla nel centro specializzato. Alla fine, con fatica, siamo riusciti ad avere una sacca con 52 millilitri di plasma. Mia mamma era molto provata ma abbiamo trovato grande disponibilità, professionalità e dedizione.
Però fa rabbia vedere come queste persone siano costrette a lavorare con strumenti vecchi e lenti». La signora Antonina punta il dito contro le apparecchiature obsolete ma sottolinea un punto cruciale: «L’eccellenza va sostenuta con fondi per attrezzature moderne, aumento del personale e incentivi. Non si può sempre contare solo sulla buona volontà dei singoli: la sanità va finanziata adeguatamente».
Dall’azienda ospedaliera Villa Sofia-Cervello assicurano verifiche immediate per capire cosa non abbia funzionato e trovare soluzioni. Questa vicenda dimostra che, dietro le straordinarie prospettive delle terapie innovative, ci sono sfide concrete: dalla logistica dei centri specializzati alle complessità tecniche dei macchinari. Ma anche che, accanto alla scienza, servono sempre umanità, resilienza e un sistema sanitario pronto a sostenere chi combatte ogni giorno contro la malattia.

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