Tra le immagini simbolo dello sciacallaggio in corso ormai da mesi al Policlinico c’è quel tratto di marciapiedi vuoto davanti a Neurochirurgia: oltre ai segni dei cantieri, sempre più evidenti, a terra è possibile notare anche i resti di una panchina che ormai non c’è più. Rubata. Come gli otto televisori che aiutavano in qualche modo a lenire le sofferenze dei malati sottoposti a lunghi cicli di chemio e radioterapia. O come i giochi sottratti ai piccoli pazienti del reparto di oncologia pediatrica del «Di Cristina».
Nemmeno le scarpe o gli indumenti lasciati negli armadietti da medici o infermieri sembrano più al sicuro, così come è sempre più facile imbattersi in estranei o sconosciuti lungo i viali o addirittura nei reparti stessi. È vero, ogni volta la reazione della città è tanto forte quanto violento e deplorevole il gesto che l’ha scatenata. E ogni volta all’indignazione segue una pioggia di solidarietà e la generosità della gente finisce col raddoppiare o addirittura triplicare il valore di ciò che è stato rubato. Ma è come curare il cancro con un’aspirina, usare un palliativo per un male che ha bisogno di un intervento più aggressivo, per un fenomeno (non si può più parlare di casi isolati) che ha assunto ormai contorni e dimensioni preoccupanti sia per chi lavora in ospedale, ma soprattutto per chi è costretto a frequentarlo. Perché la verità è che quando cala la sera, soprattutto tra i viali del Policlinico, c’è il rischio di entrare interi e uscire con qualcosa di rotto. O (peggio) derubati, aggrediti, malmenati. Complice il buio, un impianto di illuminazione che di sicuro non «brilla» per efficienza, la mancanza di videosorveglianza o un sistema di sicurezza impreparato a gestire l’apertura dei numerosi varchi legati al cantiere. Gli ospedali — e in particolare i pronto soccorso — in città sono sempre stati luoghi di frontiera oltre che rifugio per chi soffre o sta male. Efficienti sicuramente non sono, almeno rendeteli sicuri.
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