La politica e l’«arte» del consenso prezzolato
«Ars, pioggia di soldi per tutti (1 agosto ‘24). «La Finanziaria delle prebende» (29 dicembre ‘24). «Roma ferma le mance dell’Ars» (11 marzo ‘25). «Galvagno difende le mance dell’Ars» (27 marzo ‘25). «Regione, riparte la corsa alle mance» (12 giugno ‘25). Sono solo alcuni dei titoli con cui questo giornale ha aperto la sua prima pagina negli ultimi dieci mesi per raccontare il teatrino delle clientele che atavicamente svilisce la già decaduta nobiltà del parlamento siciliano. Di cui tanti si riempiono la bocca, magari masticando al contempo la propria fetta di torta a svariati zeri. La stucchevole liturgia andata in scena ieri a Palazzo dei Normanni non è altro che la riproposizione stantia e scontata di un vecchio copione sgualcito: autodifese d’ufficio e solidarietà corporative, trinceramenti e arroccamenti, prese di distanza di maniera e attacchi all’avversario fiaccato, con qualche prudente distinguo che non si sa mai cosa ancora può venire fuori. Gli effetti dell’inchiesta Galvagno & c. si stanno espandendo come un blob sulla credibilità di una politica che deriva sempre più irreversibilmente verso il consenso prezzolato. Non tutto quello che sta emergendo in queste ore, come sempre nei casi in cui inchieste e intercettazioni solleticano pruriti voyeuristici e qualunquisti, ha valore e rilevanza penale. Ma è difficile, per un osservatore disilluso e magari un po’ superficiale, riuscire a distinguere il reato dal vizietto. E così il pasticciaccio brutto è servito. Resta da attendere la risacca dopo l’onda (stimolata pare anche da un vento gelido che soffia da Cannes...) per aver chiaro fin dove ci si è realmente spinti. Ma questo malvezzo di spartire soldi, incarichi, favori, raccomandazioni, regalìe è evidentemente ormai portato all’esasperazione. Con un incomprensibile senso di impunità che emerge dai virgolettati delle intercettazioni: si ritiene di poter dire di tutto e fare altrettanto. Non crediamo, vogliamo non credere, nel crimine a tavolino. Ma l’incapacità - qualche volta la pacchiana ingenuità, grave tanto quanto - di non comprendere i limiti fra lecito e illecito qualificano i protagonisti della vicenda. Riuniti in un torbido sottobosco degli affarucci in cui ai politici si mischiano burocrati, imprenditori, professionisti, portaborse e mestieranti vari. Tutti a caccia di una quadratura all’insegno del più spudorato do ut des. L’inchiesta chiarirà, sappiamo che non tutto sarà dimostrato o dimostrabile, ma resta la macchia all’etica di un sistema che sull’etica dovrebbe basare il proprio consenso. Senza regalare o mendicare biglietti di concerti, mancette per feste padronali, posti di lavoro veri o consulenze fasulle, «così stiamo belli tranquilli». Salvo poi impettirsi a difendere in pubblico la sacralità del primato e delle prerogative della politica. Del resto, un fine pensatore e sardonico osservatore lo aveva detto: «In politica le virtù vanno ostentate, mai messe alla prova». Ma quelli della combriccola di mance e prebende sanno chi era Roberto Gervaso? L'articolo completo sul Giornale di Sicilia in edicola e nell'edizione digitale.