Questo sito contribuisce all’audience di Quotidiano Nazionale

Falcone, un eroe repubblicano che non fu lasciato solo

Per Antonino Blando, professore di Storia contemporanea all'università di Palermo, il giudice ucciso nella strage di Capaci venne sostenuto a Roma da uno schieramento ampio e trasversale

Lunedì 25 maggio 1992, l’ambasciatore americano Peter Secchia partecipava, sotto la pioggia, al funerale di Falcone. A James Baker, segretario di Stato del presidente repubblicano George Bush, descriveva il clima di «grande commozione» che pervadeva la città, con il «dolore» di migliaia di persone che invocavano «a gran voce giustizia rivolgendosi ai politici presenti». Secchia era sinceramente commosso, Falcone era stato suo ospite a cena la sera del giovedì precedente, soli «due giorni prima che saltasse in aria», la mattina di quel maledetto sabato il giudice aveva appeso nel suo ufficio una fotografia che li ritraeva insieme, «dicendo alla sua segretaria che io ero il suo più caro amico». Sempre a Baker, appena avuta la notizia dell’attentato, aveva scritto: «Falcone era un infaticabile paladino dell’antimafia, il simbolo vivente della resistenza al crimine organizzato, un uomo coraggio».

La sua morte era anche un attacco agli Stati uniti, sosteneva Secchia, perché era stato lui uno degli artefici dell’inchiesta Pizza Connection, ed aveva sempre lavorato «a stretto contatto coi nostri ufficiali». Nel mentre, William Session direttore dell’FBI, arrivava per seguire di persona le indagini sull’attentato. Non era la prima volta che i vertici investigativi americani atterravano a Roma. Subito dopo la nomina di Falcone a Direttore generale al ministero della Giustizia, c’era stata una riunione per discutere la conclusione del maxiprocesso alla mafia. Bisognava fugare i dubbi che parte dell’intelligence americana avanzava, su un possibile ritorno «ad uno scenario post-processuale di “pax mafiosa” che poteva segnare la fine degli attuali sforzi di contenimento della mafia e un ritorno allo status quo ante». Secchia aveva assicurato che proprio la presenza di Falcone al governo vanificava una tale minaccia.

La costruzione della Direzione nazionale antimafia dava garanzia che sul contrasto alla mafia non si sarebbero fatti passi indietro, anzi poteva servire per affrontare anche la nuova sfida del terrorismo internazionale. Nei primi giorni del giugno successivo, alcuni senatori guidati dal democratico Joe Biden, firmavano una risoluzione di condanna per l’assassinio di Falcone, celebrandolo come «un eroe nazionale». Non solo Falcone godeva della fiducia del governo americano, ma anche di quello italiano ad iniziare dal Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Era lo stesso Falcone a chiedere un colloquio al Quirinale, quando veniva investito dalla vicenda delle lettere anonime del «corvo», nella quali lo si accusava per la gestione personalistica dei pentiti di mafia. Cossiga, ricorda il suo addetto stampa e consigliere Ludovico Ortona, «è orrificato» da quelle polemiche. Il 4 agosto del 1989 Falcone era ricevuto dal presidente: «Mi dice – scrive ancora Ortona – che trattasi di persona di primissimo ordine, estremamente capace e intelligente e quello che ci vuole per la Sicilia perché è un profondo esperto della “sicilianità”. Corretto e garbato, mi dice».

Cossiga iniziava ad interessarsi ed intervenire sulla questione della giustizia palermitana. L’8 giugno 1990 Pietro Giammanco veniva nominato dal Csm nuovo Procuratore della Repubblica di Palermo con il convinto sostegno di Falcone, anche se i rapporti tra i due cominceranno a guastarsi già alla fine dello stesso anno. Intanto Falcone decideva di candidarsi alle elezioni del CSM ma dopo una campagna elettorale poco «convenzionale» il 4 luglio l’esito era negativo: sorprendentemente non veniva eletto tra le fila del nuovo raggruppamento che aveva contribuito a fondare. Per il Presidente della Commissione antimafia, l’ex comunista Gerardo Chiaramonte, era ora che il giudice lasciasse la Sicilia. La scelta di Falcone era dettata, secondo Chiaramonte, che lo difenderà in ogni sua scelta, dalla convinzione che ormai la lotta contro la mafia si poteva condurre anche e soprattutto da Roma, influenzando la politica generale del governo: «Capii, quel giorno, che Giovanni Falcone aveva deciso, in un modo o nell’altro, di lasciare Palermo», scrisse Chiaramonte.

Alla fine di quell’estate, il 26 settembre del 1990, Cossiga scriveva una lettera a Giulio Andreotti, presidente del Consiglio, e al Guardasigilli Giuliano Vassalli, per rilanciare la lotta alla mafia, chiedendo esplicitamente che Falcone venisse nominato alla Direzione generale degli affari penali del ministero della Giustizia: «A mio avviso, tutto quanto egli poteva dare in sede locale, l’ha dato; la sua capacità e la sua esperienza, il suo patrimonio di conoscenze e di relazioni debbono ora avere una utilizzazione a maggior livello» (v. C. Visconti, Fu Cossiga a volere Falcone agli Affari penali del ministero, in questo giornale, 20 aprile 2025, pag. 12). Il 13 marzo 1991, arrivava la nomina, con il nuovo ministro della giustizia, il socialista Claudio Martelli, del governo Andreotti, sostenuta dal nuovo ministro dell’Interno, il democristiano Vincenzo Scotti, da Cossiga e auspicata da tempo da Chiaramonte. Se non ora quando? Così Giuseppe Di Federico, studioso di sistemi giuridici e allora consulente di Martelli, poneva davanti al ministro la gravità dei problemi da affrontare: «Guidi – gli disse – un ministero vetusto, ossidato, burocratico in balia di cordate di magistrati litigiosi. Non illuderti, hai solo un anno davanti; non hai tempo né la possibilità di fare grandi riforme, ma il tempo di lasciare il segno con iniziative dirompenti quello sì, ce l’hai».

La prima grande iniziativa era salvare il maxiprocesso in Cassazione, anzi, dirà Martelli a Falcone, «possiamo iniziare da dove eri arrivato, facciamo dell’eccezione la regola, codifichiamo l’esperienza del pool antimafia, facciamola diventare legge e rendiamo la lotta alla mafia una priorità di governo».

Dal governo e dall’opposizione, dall’ambasciatore americano ai vertici della FBI, da giudici ai giornalisti, molti furono a fianco di Falcone e lo difesero, almeno tanti quanto lo avversarono. Uno schieramento ampio e trasversale che contraddice la retorica di Falcone «uomo solo», abbandonato a combattere la mafia e, quindi, destinato a subirne l’inevitabile vendetta. In realtà, Falcone è stato un eroe repubblicano, uno dei più importanti servitori della democrazia e della Costituzione che ha pagato con la vita l’aver messo a segno colpi mortali contro Cosa nostra grazie alla sua intelligenza e alla sua fedeltà alle istituzioni.

 

Antonino Blando, professore di Storia contemporanea, dip. Scienze politiche dell’Università di Palermo

Digital Edition
Dal Giornale di Sicilia in edicola

Scopri di più nell’edizione digitale

Per leggere tutto acquista il quotidiano o scarica la versione digitale.

Leggi l’edizione digitale
Edizione Digitale

Tag:

Caricamento commenti

Commenta la notizia