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Piersanti Mattarella, un «costruttore» figlio della migliore tradizione democristiana

Moro lo voleva come erede politico per tenere testa all’inarrestabile antagonista di sinistra, mentre lui guardava avanti con fiducia

Piersanti Mattarella

Come ogni anno, senza cadere nella ripetitiva ritualità, facciamo memoria dell’assassinio di Piersanti Mattarella, il presidente della Regione che ha incarnato una stagione appassionante, non solo della storia della nostra Autonomia regionale ma anche della stessa Sicilia. Quest’anno mi permetto di farlo affidandomi al ricordo personale, a cominciare da quando lo conobbi in occasione della elaborazione del documento della Regione da presentare a quella che fu l’ultima delle Conferenze delle Regioni Meridionali che, nel 1977, si svolgeva a Catanzaro.

Ero stato incaricato della redazione materiale di quel documento, su cui si accentrava molta attenzione, e che presentava difficoltà di redazione, visto che doveva soddisfare i desiderata di tutte le forze politiche presenti in Assemblea regionale. Un compito abbastanza arduo, dunque, ma ad un tempo gratificante e che mi consentiva di rapportarmi con gli esponenti - e allora si trattava di personaggi di notevole spessore, anche culturale - più in vista della politica siciliana. Fra questi, anche il giovane e rampante, nel senso buono del termine, assessore regionale Piersanti Mattarella, che mi colpì intanto per la sottile ironia, accompagnata da un sorriso solare ma anche per la sua indubbia competenza e per la cultura.

Non posso dire che divenimmo amici, ma certamente apprezzai l’invito rivoltomi a partecipare alle riunioni settimanali del Gruppo politica. Si trattava di un sodalizio da lui stesso promosso per discutere soprattutto di politica, di quella regionale in particolare. Accolsi con gioia l’invito e frequentai assiduamente quelle riunioni con grande soddisfazione, anche perché mi consentì di conoscere molti personaggi di rilievo, a cominciare da Antonio Todaro, Salvatore Butera, Rino La Placa, Salvo La Rosa, Leoluca Orlando, Andrea Piraino, lo stesso Sergio Mattarella e tanti altri, che avevano proprio Piersanti Mattarella come riferimento politico.

Era, quello, un cenacolo di dibattiti in cui Mattarella spiccava per lucidità di pensiero e capacità di mediazione. Ricordo che, pur lasciando spazio alle discussioni - teneva infatti in gran conto le opinioni di tutti - si mostrava autorevole e i suoi convincimenti divenivano, quasi sempre, i convincimenti generali. Questo fino a quando, chiamato alla presidenza della Regione, com’era ovvio, le riunioni settimanali si diradarono. L’ultima alla quale partecipai risaliva non ricordo bene se alla fine di novembre o ai primi di dicembre del 1979.

La morte di Piersanti, in quel tragico giorno dell’Epifania del 1980, determinò un forte scoramento generale che ebbe l’effetto della fine di quell’esperienza.

Da allora, continuando a frequentare molti degli amici di quel sodalizio, e forse per reazione - a partire da quell’odioso tentativo di strapparlo alla sua storia per fare di Piersanti Mattarella una immaginetta incorniciata dalla scritta «un democristiano diverso» - sono tornato spesso a riflettere su quell’esperienza ma anche e soprattutto sull’identità, spesso rielaborata o deformata ad usum delphini, di quell’uomo strappato da un atto criminale alla vita, arrivando alla conclusione (e so di suscitare qualche mal di pancia), che l’immaginetta (o santino), di cui dicevo, poco corrisponde alla figura del presidente.
Per quel poco che l’ho frequentato ne ho infatti tratto tutt’altra convinzione.

E cioè, e di questo mi assumo la piena responsabilità, che Mattarella fosse in realtà «un vero democristiano», in continuità con la storia di un grande partito che, come recentemente ha ribadito, con apprezzabile onestà intellettuale, Sigfrido Ranucci, aveva un serio progetto per l’Italia e che, con tutti i suoi limiti, è stato il sapiente protagonista del consolidamento della democrazia e della crescita socioeconomica del Paese.
Piersanti è stato, come lo era già stato il padre Bernardo, un democristiano che aveva l’orgoglio di esserlo, un uomo del «fare» che guardava con quella necessaria carica passionale il futuro dell’Isola e dello stesso Paese per il quale, insieme a una valente generazione di compagni di partito, altrettanto capaci e carichi di motivazioni, seguendo la migliore tradizione della Dc, si sentiva impegnato, spesso sfidando antichi poteri forti, a consolidare la democrazia e lo sviluppo economico sociale della regione.

Un profilo, in particolare, di chi ha la certezza di combattere una buona battaglia, e per questo motivo guarda con responsabile fiducia al futuro, un profilo che, a mio modo di vedere, appare lontano da quello dello stesso Aldo Moro.
Moro - che apprezzava Piersanti al punto da designarlo come suo erede - era, infatti, un intellettuale segnato da un profondo pessimismo, carico di tormenti esistenziali, fra i quali non mancava l’errata convinzione che, di fronte alla crescita, che gli appariva inarrestabile, dell’antagonista di sinistra, la Dc sarebbe stata costretta a cedere il primato nei consensi e, con esso, il governo del Paese: ipotesi considerata catastrofica che, come «il calice amaro» di Cristo sulla Croce, avrebbe voluto allontanare.

Tutto il contrario Mattarella, che da tali inquietudini non era tormentato e che, carico di quell’ottimismo della volontà di gramsciana memoria (che gli aveva fatto dimenticare il voltafaccia comunista del 1979 che lo aveva costretto alle dimissioni), guardava appunto avanti, con coraggio e decisione. Proprio come quei democristiani costruttori: e mi riferisco - con le dovute proporzioni - ai De Gasperi e ai Fanfani a cui dobbiamo, dopo le tenebre fasciste e le macerie della guerra, la costruzione dello Stato democratico e la crescita economica e sociale del Paese.

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