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La virtù del governo e il vizio del potere

Un’atavica dicotomia caratterizza la politica, in Sicilia come a Roma. Molti gli obiettivi raggiunti, il rovescio della medaglia è il banchetto al momento dell’approvazione delle misure di bilancio

Sala d'Ercole
Sala d'Ercole

C’è una atavica dicotomia che caratterizza la politica. Almeno quella ormai ben distante dalla sua nobile etimologia greca di politikḗ. Una dicotomia che nel continuare a foraggiare la progressiva disaffezione misurata ad ogni tornata elettorale, sta sempre più allargando la frattura fra gli interessati che perseverano e i disillusi che si astengono. Ed è quella che contrappone molto spesso la virtù del governo al vizio del potere. A Roma come a Palermo. Prendiamo la Regione, per esempio. Non mancano gli elementi che tenderebbero a dare tangibile valore proprio alla virtù di governo. Conti riassestati, sblocco delle assunzioni, misure di sostegno al lavoro e alle imprese, oltre che alle famiglie meno abbienti (pur con qualche censurabile tendenza al mero assistenzialismo), la robusta spesa per la sanità fra tagli (potenziali) alle liste d'attesa e piano di ammodernamento di strutture vecchie e inadeguate o la tanto auspicata riesumazione dei progetti per i termovalorizzatori, demonizzati dai fondamentalisti dell'ambiente in città dove la differenziata resta e resterà sempre una chimera. Tutti temi su cui riteniamo di poter esprimere un giudizio comunque positivo, a quasi metà del mandato di questa legislatura a maggioranza centrodestra, pur davanti a uno scenario complessivo in cui gli step da consumare per ridurre la cronica frattura socioeconomica con le aree più sviluppate del Paese sono tanti e al momento perfino insondati. In tal senso l'annuale classifica del Sole 24 Ore sulla qualità della vita, che relega puntualmente le nove province siciliane agli ultimi posti della graduatoria multi-parametrale, resta fin troppo paradigmatica. Ma tant'è, qualcosa si intravede in fondo al tunnel.

Poi però c'è l'altra parte della medaglia. Quella dei vizi del potere. Che ha appena avuto plastica testimonianza nell'approvazione della Finanziaria 2025. Non succedeva da quasi venti anni che ci si arrivasse prima della notte di San Silvestro. Lodevole tempismo sì, ma a che prezzo? Cento milioni sonanti tirati fuori dai cassetti, sottratti ad altro e spartiti a tavolino fra i 70 deputati: ci sono elettori e sostenitori, amici e qualche volta anche parenti da tenersi buoni. Una sagra qui e una festicciola là e tutti contenti. Con le rituali critiche di rito dell'opposizione a cose fatte, una liturgia dell'ipocrisia a banchetto ecumenico consumato. Il tutto dopo un'estate a spartirsi altre prebende, «perché così in fondo ha sempre funzionato». Poi la manovra di fine anno, «ma non ricapiterà più». Infine la nuova Finanziaria, «ma dall'anno prossimo cambiamo le regole». Non ci crede neanche il più ingenuo dei boy scout. Un'esibizione prepotente e pacchiana di potere, subìta per esempio da chi non ha santi in paradiso (pardon, a Sala d'Ercole) e che – disilluso con vista sull'astensione - deve guardare a debita distanza la grassa torta spartita fra gli amici - gli interessati che perseverano - e accontentarsi di sperare nelle briciole messe a bando, «perché la trasparenza prima di tutto».

E non è che negli affari romani le cose vadano in maniera diversa. Il governo Meloni sembra in fondo godere di buona salute dentro il Paese e solide basi oltre confine. Nell'ultima manovra – blindata però dal non gratificante voto di fiducia - vengono anche codificate misure ad alto tasso di popolarità, dal taglio del cuneo fiscale alla riduzione delle aliquote Irpef, dal bonus anti denatalità agli aiuti per le attività extrascolastiche. Il tutto mentre la premier deve slalomeggiare fra le spacconate di qualche ingombrante alleato e i grattacapi da vizio di potere procuratigli a più riprese da incauti esponenti del suo governo (le tresche amorose di Sangiuliano, i treni di Lollobrigida, le non sempre misurate esternazioni di Nordio o di Valditara, le grane giudiziarie della Santanchè) o da troppo nostalgici esponenti del suo partito (vedi la rumorosa inchiesta di Fanpage).

Del resto, come teorizzava Max Weber, ci sono due modi di fare il politico: si può vivere «per» la politica oppure si può vivere «della» politica. Il guaio è che spesso seggono uno accanto all'altro. E sembra che vada bene a tutti. O che, peggio, non freghi niente a nessuno. La scorsa settimana Nando Pagnoncelli sul Corriere della Sera certificava una sostanziale stagnazione dei consensi e delle intenzioni di voto lungo lo Stivale negli ultimi dodici mesi. Sia nel centrodestra che nel centrosinistra tutto è praticamente immobile. Uniche differenze di un qualche minimo rilievo? Lo 0,3 in più degli altamente umorali pentastellati postgrillini e, soprattutto – guarda caso – lo 0,5 in più del partito del non voto. Che cresce. Cresce drammaticamente sempre.

Intanto nel mondo il 2024 tanto ha raccontato. È l'anno della grande restaurazione trumpiana, in cui tutti si strappano i capelli per le chissà quali nefaste conseguenze del ritorno alla Casa Bianca dello scomodo tycoon e nessuno a interrogarsi seriamente sui motivi per i quali gli americani lo hanno rivoluto lì. Del resto, funziona così ad ogni latitudine: il giustificazionismo della propria sconfitta passa sempre e quasi esclusivamente attraverso la demonizzazione dell'altrui vittoria. E una nostra certa sinistra questo lo sa bene. Anche se qualcosa in tal senso comincia una buona volta a muoversi. Per esempio i primi accenni di sensati distinguo sull'integralismo delle politiche sui migranti e la relativa ortodossia dell'accoglienza a tutti i costi. Materia calda e delicata sulla quale le sconfitte a catena rimediate ad ogni tornata elettorale – qui e altrove - hanno indotto a qualche riflessione supplementare, sintetizzata nei primi «non possiamo accoglierli tutti» che si elevano neanche troppo timidi adesso da quel fronte. Lungi da noi cavalcare il vento spiccio e gretto – oltre anche antistorico e involutivo – del radicalismo antimigratorio, tipico di una certa destra ancora allergica alla contemporaneità illuminata di un pensiero che dovrebbe invece travalicare gli steccati ideologici. Una cosa è l'aspetto umanitario – non un solo essere umano va mai lasciato morire fra le onde e le maree, annegando nel suo stesso disperato sogno di futuro – un’altra è la gestione collegiale e sovranazionale della delicata materia, finalizzata al bene di tutti. Per farla breve, non ci piacciono - per nulla - i foschi muri issati da Trump che riportano alla memoria il sangue di ferite cicatrizzatesi a fatica ma di imperitura permanenza nelle pieghe della storia contemporanea e, speriamo, futura. Ma non ci piacciono neanche gli indiscriminati afflussi di clandestini, mercanteggiati da scafisti criminali, fatti sbarcare in nome di una decantata pseudomorale dell’accoglienza, che però tale rimane solo finché mettono piede a terra, dopodiché essa finisce sbrigativamente in archivio, loro vagano abbandonati al proprio (e collettivo) destino e avanti col prossimo. E tutto questo a prescindere da un principio comunque chiaro, stabilito dalla sentenza (ancora di primo grado, certo) sul caso Salvini-Open Arms: in punta di diritto, nessun reato si consumò in quella drammatica estate del 2019, è vero. Ma bisognava arrivare a viverla davvero in quel modo?

Domani è già 2025. L'anno giubilare della Speranza. Nell'ultimo Angelus il Papa ha chiesto di pregare per le famiglie che soffrono a causa delle guerre, dall'Ucraina alla Palestina, dal Myanmar al Sudan. Una preghiera forse da sola non basterà. Anche perché qualche giorno prima, in un'intervista a una tv argentina, lo stesso Bergoglio aveva sottolineato che è ipocrita parlare di pace e armare la guerra e che così si tende solo all'autodistruzione. Per questo speriamo che – chissà mai - una volta tanto la virtù del governo possa prevalere sul vizio del potere.
Buon anno!

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