Sventurato quel popolo che ha bisogno di eroi, teorizzava Bertolt Brecht. Ma il celebre drammaturgo non sapeva evidentemente di calcio. Tantomeno era un tifoso appassionato. Non avrebbe di certo compreso l'innocente e neorisorgimentale entusiasmo italiano del Mundial '82 e del suo profeta Paolo Rossi. Né mai avrebbe compreso l'allegro fanatismo autarchico delle Notti Magiche di Italia '90. E del suo simbolo assoluto. Il più inatteso, il più iconico.
Totò da Palermo, come Paolo da Prato, è stato – ed è destinato ad essere per sempre - un'icona pop. Uno di quegli eroi all'italiana, improbabili e un po' così, lontani dalla classica plasticità della mitologia greca, non per forza irreprensibili e piuttosto appendice reale dei sogni inespressi di ciò che ognuno di noi vorrebbe essere. Con la certezza che non sarà mai, ma con l'illusione che in fondo potrebbe anche, perché no. Come il Pablito di Spagna, il Totò sotto il cielo di un’estate italiana di 34 anni fa era uno che improvvisamente, caparbiamente, ce l'aveva fatta.
Rossi - gracile, grezzo, intristito e vituperato - quel mondiale in terra iberica non avrebbe neanche dovuto giocarlo, reduce suo malgrado dalle ceneri del primo grande scandalo del calcio italiano, quello delle scommesse e degli arresti a bordo campo in diretta su 90° Minuto. Invece lo giocò eccome. E ne uscì leggenda. Totò, il picciotto del Cep dal lessico approssimativo, il curriculum ancora scarno, il fisico tarchiato, la stempiatura demodè e la tecnica non sopraffina, a Italia '90 ci arrivò da poco più che aggregato. Valanghe di reti dalla C2 alla B col Messina, 15 gol in A e una Coppa Uefa al primo giro di giostra con la Juventus bastarono per farne riserva delle riserve nel blocco azzurro che doveva spaccare il mondo in casa propria. Eppure la prima partita stava già andando in malora quando, a un quarto d’ora dalla fine, il nostro eroe entrò in campo con il suo malandrino caracollare, sgranò gli occhi, destabilizzò ogni equilibrio, cominciò a segnare. E non smise più. Assurgendo a mito. Solo la gaudente nuca biondo platino di un caudillo argentino e la sfarfallata di un portiere simbolo del prorompente frichettonismo anni Ottanta ne fermarono la galoppata verso l'apoteosi finale. Non si prese la coppa del mondo. Ma si era intanto già preso il mondo intero. Volando sulle ali del mito. E restando con i piedi ben piantati nella sua Palermo. Quella Palermo delle nemesi e dei paradossi che passò in un solo botto dall’ammirazione all’adorazione, ma di cui lui non ha mai potuto indossare e difendere i colori. E dove ha comunque deciso di restare, sempre, a prescindere. Anche quando le sirene della gloria suonavano sinfonie a destra e manca, portandolo dalla Juventus all'Inter come se niente fosse. Anche quando scelse di farsi coprire di yen in Giappone, accorciandosi la carriera e irrobustendosi (non troppo a lungo, ahilui) il portafoglio. Anche quando fu eletto consigliere comunale, salvo poi ben presto accorgersi che lui lì in mezzo a quei grigi politicanti dalle pance piene e la miccia corta non aveva proprio a che starci. Meglio i ragazzi della sua scuola calcio. Meglio i campi spelacchiati del Ribolla, meglio gli amici, meglio la famiglia. Perfino meglio le spiagge caraibiche dell'Isola dei Famosi: ma ve lo ricordate in mutande accanto a Kabir Bedi? Una roba che neanche nelle fantasie più surreali di un romanziere dell’assurdo.
Un eroico antieroe. Naif e proletario, lontano anni luce dall'aurea aristocratica di Roby Baggio. Eppure troppo intelligente e sensibile il Divin Codino, per non comprendere che quel palermitano verace e sincero che gli avevano piazzato in camera nelle notti di quel mondiale allegro e sfortunato era persona vera, genuina, profonda. Meritevole della sua sempiterna amicizia. Per questo, soprattutto per questo, come un ammiratore qualsiasi di quel terrone di un campione, Baggio ieri si è precipitato di persona a Palermo e ha pianto sulla sua bara. Nella camera ardente allestita in quella vecchia Favorita che non lo vide mai protagonista e che proprio in un altro 18 settembre (di 22 anni fa) veniva intitolata al presidentissimo Renzo Barbera, altro personaggio mitologico della Palermo pallonara. Coincidenze, certo. Ma perché non credere a un disegno celeste?
Del resto i miti, come gli eroi, segnano epoche. Le marchiano. Le aprono e le chiudono. Al punto da rappresentare, oltre il loro stesso specifico posto nel mondo, uno spartiacque, un giro di boa, una virata generazionale. Ed ancora riemerge l'ideale filo rosso che unisce Schillaci a Rossi. Quest'ultimo con i suoi gol sbatté definitivamente la porta in faccia all'Italia buia, disordinata, complottista ed esacerbata degli anni Settanta. Sparita in un puff quella notte dell'11 luglio del 1982, trascorsa tutti insieme a festeggiare per le strade grazie al rospo Paolo diventato il principe Pablito. Iniziavano ufficialmente i fantasmagorici anni Ottanta, scanzonati e rampanti, esagerati e narcisisti. Un arco psichedelico che si chiuse ufficialmente proprio nell'estate di otto anni dopo. L'estate di Totò Schillaci. Che da quegli anni Ottanta emergeva come l'eroe del riscatto di una Sicilia immersa nel piombo e nel sangue delle sue guerre di mafia, ancora peraltro silente e inconsapevole di cosa l'attendeva da lì a due anni. Perché quelli furono sì gli anni della Milano da bere. Ma furono anche gli anni della Palermo che spara. Schillaci fu il rifugio e la trincea, l'ancora e il timone. Il sogno e la realtà. Rossi ha aperto un'epoca. Schillaci l’ha chiusa. Miti veri perché trascendenti. Nel 1994 l'Italia arrivò a un millimetro dal mondiale americano. Nel 2006 lo vinse a Berlino. Ma alzi la mano chi sa additare, di pancia e di cuore, un solo calciatore a simbolo identitario e universale di quelle due imprese. Nella Spoon River dei nostri miti adesso seggono accanto, Pablito e Totò. È vero, quest'ultimo ha segnato meno gol di Anastasi, ha vinto meno scudetti di Furino e, bontà sua, ha fatto meno cazzate di Balotelli. Ma, checché ne pensi Brecht, è stato davvero un eroe. Sportivo e antropologico. Umano e di costume. Positivo e balsamico. Uno di quegli eroi di cui la Sicilia ha un estremo bisogno. Per non arrendersi all'assioma che quaggiù si può essere eroi solo da martiri.
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