Dobbiamo tutti delle scuse a Paolo Borsellino, come le dobbiamo a Giovanni Falcone, a tante vittime di Cosa nostra e anche al presidente del maxiprocesso, Alfonso Giordano, scomparso nel luglio 2021 all’età di 92 anni. Dobbiamo delle scuse a Borsellino, Falcone come a Giordano e a molti altri, per non avere compreso fino in fondo, quando erano vivi, il loro lavoro, trattandolo come roba ordinaria, un gran bel processo magari, ma pur sempre un processo. E cosa vuoi che sia. Invece era la Storia. La Storia passava da qui ma ce ne siamo accorti solo quando la mafia - capace, ben più della cosiddetta società civile, di capire fino in fondo come si fa o si subisce la Storia - ha squassato il nostro mondo col tritolo, entrando a sua volta nella Storia, ma dalla parte sbagliata. Dobbiamo tutti delle scuse a Paolo Borsellino per non aver saputo proteggerlo da vivo, quando la cronaca della sua morte annunciata si dipanò lungo 57 terribili giorni di sofferenza interiore e collettiva, di una moglie e di figli ancora giovanissimi e segnati per sempre dal senso di impotenza che avvolse un Paese intero, sofferenza che fu dell’uomo, del marito, del padre e del magistrato che credeva in quello Stato incapace financo di piazzare un cartello di zona rimozione sotto casa della madre. L’avrebbero ucciso lo stesso, è lo stupido refrain di chi tende a minimizzare. Ma non lo avrebbero ucciso così facilmente. Dobbiamo tutti delle scuse a Paolo Borsellino per non avere saputo difendere uno dei nostri uomini migliori ma anche per non avere saputo restituire verità - una piena, totale, certa verità - alla sua morte. Trent’anni dopo siamo ancora divisi tra gli specialisti del sottinteso sapiente, dell’ammiccamento sullo Stato mafioso che si accorda, tratta e cede, magari dando l’implicito via libera a un delitto come questo, e i minimalisti del non ci fu niente, in fondo quello Scarantino era un balordo e un calunniatore incompreso, sai quanti pentiti così ci sono stati nella storia d’Italia? Dobbiamo tutti delle scuse a Paolo Borsellino per avere ancora bisogno di indagini per stabilire se ci fu o non ci fu un depistaggio in verità tanto più colossale quanto più avvenne sotto gli occhi di tutti. Chi ricorda le testate contro il vetro e le sbarre della gabbia del meccanico Giuseppe Orofino, disperato perché condannato all’ergastolo nel primo processo per la strage di via D’Amelio? Lui almeno si salvò, venendo assolto nei successivi gradi di giudizio. Ma ci furono sette ergastoli ingiusti, dati con sentenze passate in giudicato soprattutto sulla base di dichiarazioni di un collaboratore che un giorno chiamava le tv per dire che lui non c’entrava niente, con la strage, un altro andava in aula a riconfermare le proprie dichiarazioni, per poi smentirle il giorno successivo e ribadirle tre giorni dopo. Dobbiamo tutti delle scuse a Paolo Borsellino perché in nome del popolo italiano - quindi di tutti - furono emesse condanne definitive dopo che queste scene le avevamo viste proprio tutti. Dobbiamo delle scuse a Paolo Borsellino, ai figli - Manfredi, Lucia, Fiammetta - alla signora Agnese Piraino Leto, ai fratelli del giudice, Rita e Salvatore, quest’ultimo unico ancora in vita, perché i processi di oggi non vengono a capo di tutto ciò, non scoprono i depistatori né i corresponsabili, che non si accorsero, non videro, non fermarono nulla. Fino alla Cassazione. Angelo Piraino, nipote di Agnese e Paolo Borsellino, lo ha detto a chiare lettere, nel lungo colloquio con Costantino Visconti, pubblicato domenica dal nostro giornale: la magistratura non ha riflettuto su nulla, soprattutto sui propri, gravissimi errori. Penalmente irrilevanti, ma valgono - grave contrappasso - per i giudici le parole di Borsellino sui politici, che non devono essere valutati solo sotto l’aspetto penale, per i loro comportamenti, diciamo così, discutibili. In questo caso ci fu superficialità, forse una scelta precisa, magari in nome della ragion di Stato. Senza voler dire o affermare nulla - in attesa delle motivazioni - sul depistaggio e sulla sentenza che a Caltanissetta ha stabilito che le indagini furono orientate e indirizzate in maniera farlocca in una certa direzione, vanno ricordate le parole che i poliziotti (uno scagionato e l’altro prescritto) hanno detto, sempre domenica, al nostro giornale: se ci fu, il depistaggio, lo avrebbero fatto fare ai pesci piccoli? Ecco, dobbiamo delle scuse a Paolo Borsellino per avere trattato la sua vicenda, sin da prima che morisse, come una storia ordinaria, dall’incomprensione della reale portata dello storico processo che imbastì assieme ai colleghi fino alla mancanza di una protezione adeguata e fino alla mancanza di una qualsiasi verità, trent’anni dopo.