Lagalla ha vinto a Palermo. Il centrodestra unito pure, anzi di più. Ma se l'ex rettore e assessore regionale si appresta al suo (primo?) quinquennio da sindaco, il centrodestra ha già rotto la tregua. Lo scrutinio ieri pomeriggio non era praticamente ancora iniziato, quando in studio a Tgs Gianfranco Miccichè glorificava la vittoria di coalizione, ma un attimo dopo lanciava il suo ennesimo anatema: noi mai con Musumeci. E così la partita infinita ricomincia. Da qui a ottobre - quando si voterà per la Regione - ce ne aspettiamo di ogni.
Nelle elezioni più surreali, tormentate e zoppicanti che Palermo ricordi, i venti di burrasca tornano dunque già a soffiare su un centrodestra che sa di stravincere unito, ma che unito proprio non riesce a stare. Permettendosi il lusso di battibeccare davanti al vuoto cosmico del fronte opposto. Perché sullo stato di salute del centrosinistra è ormai inutile girarci ancora attorno. In Sicilia vivacchia sull'illusione di un campo largo Pd-M5S che in realtà sta diventando strettissimo e che però cincischia ancora sulle primarie, chissà come e chissà quando. A Palermo invece, senza Leoluca Orlando, un centrosinistra vincente semplicemente non esiste. Da trent'anni.
Il rifugio comodo sotto l'ala del monarca democratico di lungo corso – ingombrante, assolutista, immarcabile ma straordinariamente compensativo - è servito sempre per camuffare la sostanziale incapacità di parlare alla città vera e ai suoi reali bisogni, quelli ordinari e quotidiani, scevri da chiacchiere ideologiche e fumosi escamotage associazionistici o circolistici per pochi intimi. Senza peraltro perdere il malvezzo della solita atavica dispersione di voti fra candidati minori, puntualmente boicottati e sbertucciati prima dello spoglio, per poi altrettanto puntualmente rimpiangerne i pacchetti di consensi a scrutinio concluso.
In democrazia i voti si contano e non si pesano e se non ne hai a sufficienza è troppo facile andare ad additare quelli degli altri, teorizzando sempre e solo torbidità ed ambiguità. Il gioco è sgamato da parecchio, ormai. Certo, a buttarla sulle logiche di coalizione, l'Orlando paladino qui è roba buona solo per il teatro dei pupi, dove l'Orlando cavaliere solitario è magari meno gettonato, ma tremendamente più reale. L'effetto mantide religiosa del sindaco uscente sul centrosinistra, soprattutto sul sempre subalterno Pd, ha lasciato le ceneri. E il tentativo disperato dei Dem di farle ardere andando a pescare – anzi a scomodare - un assessore orlandiano di vecchia data ormai lontano dalla città e dalle sue dinamiche, non ha fatto altro che sentenziare senza appello il boccheggiamento di idee e prospettive nonché il plateale disancoraggio dalla realtà Palermo. Che ha coinvolto peraltro anche in maniera ancor più plateale il M5S, la cui erosione progressiva di consensi è ormai patologica e inesorabile. Sono già lontani i non remoti tempi delle percentuali democristiane, da queste parti i Cinquestelle hanno perfino fatto fatica a mettere su una lista convincente. E il risultato si è visto. Dunque adesso tutti in coro a cantilenare sugli schizzi di mafia che imbratterebbero il consenso dell'iper favorito e difficilmente battibile avversario.
È altrettanto vero però che Lagalla non può cavarsela brindando al successo ed esultando oltre i canoni del suo aplomb da ex rettore, fingendo che nulla sia accaduto in questa campagna elettorale. Perché di roba grave ne è accaduta. Che non scalfisce la limpidezza e la presentabilità del neo sindaco. Ma gli impone comunque di mettere in chiaro fin da subito con i partiti che lo hanno sostenuto la necessità improcrastinabile di fare piazza pulita di loschi figuri, personaggi ambigui e gradassi di borgata. Proprio l'enorme esposizione mediatica provocata dal tintinnio di manette all'alba del voto può costituire il principale alleato di Lagalla, chiamato ad un'azione moralizzatrice che non può risparmiare nessuno dei partiti che lo sostengono, da quelli mascariati dagli ultimi arresti a quelli che rischiano di portarsi dietro a vita il marchio d'infamia del peccato originale dei propri generali. Non ci iscriviamo certo alla setta talebana di chi vorrebbe il rogo socio-antropologico dopo il carcere redentivo. E però servono fatti, prove e sostanza - oltre dunque la mera professione d'intenti a parole - per dimostrare che la macchia non è indelebile. Aspetteremo.
Così come forse, dal canto suo, potrà serenamente aspettare anche Fabrizio Ferrandelli. L'altro vincitore di queste elezioni, di certo il più «orlandiano» della brigata di candidati, per la sua capacità di creare empatia con gli elettori e di consumare le suole delle scarpe per percorrere ogni marciapiede della città alla ricerca di consenso. Non poteva vincere da solo, privilegio a Palermo concesso solo al sinnacollando, né poteva sperare che i soffici avamposti calendiani potessero dargli chissà quale sostegno e supporto. Ma quella percentuale importante di consensi che lo porterebbe addirittura sopra i disastrati Cinquestelle è ora una fiche che potrà giocarsi presto su altri tavoli, senza magari dover aspettare un altro lustro per candidarsi per la quarta volta di fila a sindaco.
Di certo, Palermo non viene fuori da una settimana elettorale semplice, fra hacker, malacarne e disertori. Troppo facile però cercare nella concomitanza con la partita del Palermo le cause dei forfait in massa fra gli scrutatori, facendo assurgere la cosa a comodo alibi dello sconfitto di turno, chiunque esso fosse stato. I nudi e puri dell'ipocrisia salottiera fingono di dimenticare cosa significhi – giusto o sbagliato che sia – il calcio per questa città. La metafora del riscatto, la simbologia della rinascita, sono solo aspetti secondari buoni solo per analisti e fini dicitori. Qui siamo alla messa laica, alla religione con periodiche crisi di vocazione, che poi – puff – infila un filotto di risultati e porta 140 mila persone allo stadio in quattro partite. Si sapeva? Sì? C'era il rischio che? Naturale. Si doveva evitare? Ovvio. Si è fatto? Neanche per sogno. La tiepidezza degli organi competenti a porre il problema dell'inopportunità della concomitanza non ha giovato e sbandierare l'ordine pubblico invece solo ieri per vietare feste allo stadio e pullman rosanero in tour per la città è sembrato tardivo oltre che incoerente. Prendersela con gli scrutatori-tifosi – sui quali comunque auspichiamo la giusta attenzione della magistratura - appare un po' parziale ed autoassolutorio.
Ora è comunque tempo di guardare avanti. C'è una città da (ri)amministrare, senza buttare via il tanto di buono che è stato fatto nella lunga epopea orlandiana, ma con la consapevolezza che se la «visione» è la meta verso cui muovere, lo si deve fare tirandosi fuori dalle secche in cui ci si è impantanati e senza rischiare di riportare la rotta su mari procellosi e torbidi. Mica facile. Ma doveroso. Al momento di «Bellissimo» c'è solo il Palermo calcio. Non può certo bastare. Anche perché i siciliani tutti fra quattro mesi tornano alle urne. Con percentuali di affluenza un po' meno sconfortanti, speriamo.
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